Artisti da copertina. Parola a Edoardo Manzoni
Una chiacchierata con l’artista che ha realizzato la copertina dell’ultimo numero di Artribune Magazine. Lui è Edoardo Manzoni e ha pescato una serie di enciclopedie che appartenevano al nonno.
È cresciuto in una cascina alle porte di Milano, che ha vissuto come “un territorio da indagare, un magazzino da dove attingere forme”. Abbandona subito la passione per il disegno, perché è la natura ad affascinarlo, i suoi residui, gli scarti, tutto ciò che è rimasto lì, che lui recupera e rilegge. Edoardo Manzoni (classe 1993) contamina quella natura con innesti tecnologici, protesi, come un monitor che mostra scene di caccia. Usa software da autodidatta per creare collage digitali che chiama appunti. “Sono potenziali sculture”, ci dice, “progetti che in qualche modo cerco di riportare alla fisicità”.
Che musica ascolti?
Mi piace la musica nostalgica e chi usa l’Auto-Tune in modo creativo.
I luoghi che ti affascinano.
I pianeti remoti.
Le pellicole più amate.
2001: Odissea nello spazio e la trilogia di Jurassic Park.
Artisti (nel senso più ampio del termine) guida.
Fonte d’ispirazione, sicuramente: Richard Tuttle, Roberto Cuoghi, Pierre Huyghe, Enzo Mari, Shedboatshed di Simon Starling e l’interesse per il primitivo e il pastorale nel design radicale italiano degli Anni Settanta.
Sei cresciuto in una cascina alle porte di Milano. Penso che ciò abbia molto influenzato e influenzi il tuo lavoro prepotentemente.
Sì. Fin dall’infanzia ho vissuto la cascina come un territorio da indagare, un magazzino da dove attingere forme. Essere comunque vicino alla città, e averci vissuto, mi ha aiutato a far confluire diverse realtà e rispettivi immaginari come quello rurale e quello urbano/industriale.
Sei interessato ai residui della natura, agli scarti, a tutto ciò che trovi in natura e che vai a recuperare e a rileggere: una ragnatela, quadri di scene di caccia appartenuti ai tuoi nonni e recuperati in casa, persino strumenti del mondo rurale come quelli agricoli.
Mi piace pensare all’eredità di un luogo che possa instaurarsi in noi mediante la semplice azione della scoperta, dell’attrazione casuale verso un dettaglio, l’idea di traccia e documento insiti in ciò che vado a recuperare. In tal senso sono legato al valore personale che tali oggetti possono evocare e cerco di rielaborare sensazioni e ricordi, cogliere dettagli per poi astrarli dal contesto.
Innesto (protesi) è una parola fondamentale nel tuo vocabolario artistico.
Sono affascinato dall’idea di protesi come strumento, non solo come forma di potenziamento, ma anche di contrasto che nasce dall’unione di corpi differenti. Nei miei lavori cerco di riportare quest’idea.
Mi hai detto che l’opera è un portafortuna e che c’è sempre un elemento magico nel tuo lavoro. Che intendi dire?
L’interesse per la cultura contadina mi ha portato ad abbracciarne l’aspetto magico e le credenze popolari. Rifletto su un possibile parallelismo tra la produzione di opere d’arte e la produzione di oggetti magici o propiziatori. L’azione del ready-made e l’aspetto performativo generano una forza inattesa, alimentata dalla fiducia dell’artista, e di noi tutti, in un determinato oggetto o in una particolare azione. La magia si è sempre configurata come un tentativo di ordinare e di comprendere il mondo, forgiando un senso attorno al quale l’esserci possa darsi come presenza, rappresentando l’oggetto come alter ego.
Stai realizzando una nuova serie di immagini digitali, usando i software da autodidatta. Il caso e l’errore diventano quindi elementi essenziali?
L’utilizzo dei software mi permette di creare in maniera non del tutto arbitraria. Di solito parto dalle fotografie scattate in cascina, fotografo il luogo e tutto ciò che ne fa parte. A quel punto posso distorcere, distruggere e ricomporre l’immagine e vedere cosa ne esce. Nel caso dei vecchi quadri con scene di caccia, li recupero, li scannerizzo ed estrapolo digitalmente dei dettagli. Sono appunti digitali ma anche potenziali sculture, progetti che in qualche modo cerco di riportare alla fisicità.
Fai parte del collettivo Ditto, protagonista del nostro Osservatorio Curatori sul numero #38 di questo magazine. Ci rinfreschi la memoria? Chi, come, dove, quando, cosa e perché?
Siamo un gruppo di ricerca ma prima di tutto amici. Ne fanno parte curatori, grafici, artisti visivi e produttori musicali. In una tensione verso l’accelerazione e il moltiplicarsi delle immagini che si trasformano in materia sedimentata, ci poniamo nella condizione e nello sguardo dell’archeologo. Cerchiamo di spostarci, manifestarci in contesti sempre differenti e soprattutto in spazi espostivi alternativi.
Per una tua mostra, sul foglio di sala hai sostituito le didascalie con alcune frasi. Una forma originale. Hai una vena curatoriale?
In quel caso si trattava di lasciare suggestioni legate alla ricerca che stava dietro i lavori. Non mi piace spiegare in maniera analitica ogni cosa, penso sempre alla leggerezza di oggetti che convivono assieme. In quest’ossessione verso l’accostamento, il cercare dialogo tra diversi artisti e le loro opere è un piacere che viene assieme a quello della produzione personale. Credo molto nel lavoro collettivo e nell’artista come curatore.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
Lavorando con una bellissima collezione di “enciclopedie del cacciatore” che appartenevano a mio nonno e che ho scoperto solo recentemente.
‒ Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #38
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