Opposizioni della memoria. Intervista a Nasan Tur
L’artista di origini turche presenta un cammeo di denuncia, di memoria e resistenza all’interno degli ambienti vissuti della Fondazione Pini, a pochi passi da Corso Garibaldi, a Milano. Un intervento curato da Gabi Scardi e specificatamente immaginato per un luogo della memoria.
A Milano, la sede della Fondazione Adolfo Pini, profondamente legata al vissuto di coloro che l’hanno abitata, inaugura un progetto focalizzato sul tema della memoria e del ruolo del soggetto nella società. Memory as Resistance si presenta come un intervento site specific di Nasan Tur (Offenbach, 1974; vive a Berlino) a cura di Gabi Scardi. In mostra sono presentate una serie di fotografie e un video-ritratto con il Bosforo come sfondo. L’artista racconta il suo rapporto con i ricordi del luogo e l’immagine della memoria.
Come hai reagito la prima volta che hai visto gli ambienti d Fondazione Pini e come hai cominciato a dialogare con essi?
Quando Gabi Scardi mi ha incontrato per propormi una mostra alla Fondazione Pini, ero veramente elettrizzato. Innanzitutto, devo premettere, amo molto lavorare con lei, ci conosciamo da molto tempo e inoltre sono sempre molto felice quando so che devo fare una mostra in Italia. In secondo luogo, ho vissuto un anno in Italia, per il premio Villa Massima, a Roma, amo questo Paese e mi sento sempre in connessione con la vostra terra. Mia moglie è italiana e ho già partecipato a mostre organizzate da eccellenti istituzioni come il MAXXI o il MAMbo. Ovviamente Fondazione Pini non ha nulla a che vedere con i canonici spazi espositivi, le apparenze sono completamente diverse. Ma quello che realmente mi ha ispirato e mi ha richiesto un grande impegno è il fatto che non si parta da una sorta di grado zero del luogo.
Il luogo ha attivato all’interno della tua pratica nuove linee di ricerca?
C’è un apporto di storia e di energia che emerge dalle stanze di Fondazione Pini, per me impensabili prima. I ben noti, anonimi white cubes sembrano ovunque, nel mondo, lo stesso identico luogo. Ma qui si tratta di un ambiente unico al quale mi viene richiesto di reagire assieme al tempo di cui si fa carico. La sua anima antica, in combinazione con il suo ruolo attivo nella vita culturale di Milano è, ritengo, lo snodo più importante dell’intera mostra. Non si tratta di un museo di conservazione. Ma è un luogo di produzione e di dialogo.
Quale tipologia di progetto sviluppi all’interno delle vetrine? È la prima volta che vieni invitato a lavorare in un ambito così ristretto? Si tratta di una combinazione di fotografie e video connesse le une con gli altri. I video mostrano una sorta di making of di oggetti fotografici. Nell’arco di qualche minuto le foto vengono stropicciate e poi lasciate espandere molte volte in sequenza. Le vetrine infatti sono molto ristrette e mi forzano a pensare molto alla forma di presentazione del mio lavoro. Ho deciso di innestare questo intervento tra gli oggetti storici che si trovano in esposizione permanente in Fondazione, di modo che non sembri visibile a un primo sguardo. I visitatori esploreranno gli oggetti fotografici e il video gradualmente. Mi piace l’idea di una sorta di restrizione della forma di presentazione del mio lavoro, anche perché il contenuto diventa sensibile. Le foto mostrano diversi giornalisti che sono stati uccisi a causa delle loro ricerche investigative. Ovviamente il lavoro è in fieri e dunque in Fondazione la lista di persone scomparse non sarà quella definitiva. I giornalisti che si troveranno all’interno delle vetrinette sono simbolici e rappresentativi del cosiddetto fourth estate. Hanno pagato il prezzo più alto a causa delle modalità secondo le quali hanno svolto il loro lavoro. La mia ricerca è dedicata alla memoria, e non solo delle persone. Si deve ricordare il modo nel quale loro hanno scelto di vivere nel mondo e di come il loro ruolo è stato preso in considerazione della nostra società. Intitolare la mostra Memory as Resistance ha a che vedere con una sorta di auto-riflessione nel guardare e nel pensare a queste persone mancate. Quale tipo di ruolo noi scegliamo nella nostra vita e quale posizione vogliamo prendere, all’interno delle nostre comunità?
Qual è il tuo legame con la fotografia e da dove proviene il tuo paesaggio d’ispirazione? La fotografia è uno dei medium principali con i quali sto lavorando. Aiuta con grande immediatezza a costruire narrazioni, ma è anche un medium del quale bisogna cominciare a dubitare, perché è il punto in cui finzione e realtà diventano una sola cosa. Sembra che non ci sia più possibilità di credere nella fotografia, sebbene l’intero meccanismo dei new media sia basato su di essa e reclami sempre la verità. In questo modo come noi percepiamo le immagini e come queste, la loro riproducibilità si modifichino negli anni è un soggetto sempre interessante, da approfondire, per me.
La figura dell’uomo, del leader culturale Hrant Dink, come si insedia nel tuo lavoro?
Lui ha giocato e ancora oggi ricopre un ruolo molto importante in Turchia, nel contesto di un’evoluzione del dibattito sulle minoranze. Il suo assassinio è profondamente sedimentato nella memoria collettiva di molti intellettuali turchi e la sua fotografia è una delle sette esposte nella personale in Fondazione Pini.
Parlando dell’attivismo di cui sei portavoce, sei in contatto con realtà politiche e culturali turche? Stai sviluppando oppure hai stabilito progetti tra le tue origini tedesche e le tue radici turche?
Ho co-fondato in Germania un’iniziativa che valorizza le relazioni e la comunicazione tra gli artisti che vivono in esilio in Germania. Ci sono molti artisti coinvolti, provenienti da tutte le parti del mondo. Tutte le attività sono legate a come siamo connessi gli uni con gli altri. Dunque bisogna chiedersi: che cosa significa essere produttori di cultura e quale risulta il nostro impatto nel mondo? Non sono interessato alla diversa nazionalità di ciascuno, perché siamo tutti seduti sulla stessa barca e dobbiamo imparare a conoscerci gli uni gli altri secondo modalità di scambio sempre più entusiasmanti.
A proposito della tua idea di una economia globale (evocata e rappresentata, ad esempio, da lavori come Wall Spits Money, Kapital oppure Crisis), a quali tipologie di macro-sistemi fai riferimento? Come sta evolvendo il nostro sistema economico nel tempo?
Io ritengo che si debba trovare un modo per coltivare un umanismo e di portarlo di fronte a ogni nostra linea di azione. La globalizzazione e i suoi risultati non possono più essere fomentati. Sono concentrato nell’analizzare questo concetto e derivarne nuovi, possibili cambiamenti in termini di utilizzo di un network internazionale che sia interconnesso e che percepisca la responsabilità della presenza di tutti i componenti che ne fanno parte.
Perché l’empatia, secondo te, è così naïf?
Ho utilizzato questa citazione per uno dei miei lavori di scultura lignea, durante la mia ultima personale da Blain Southern, a Berlino. Ritengo che provochi il fatto di pensare al concetto di empatia e a quale posizione occupino i visitatori di fronte al mio lavoro. Sebbene questa affermazione contenga tutte le mie insicurezze e i dubbi ai quali faccio fronte giornalmente.
Quali sono i tuoi programmi futuri?
Sto lavorando un nuovo libro estensivo che sarà realizzato a gennaio in Germania e che includerà anche miei scritti. In marzo, invece, inaugurerò una nuova personale, con lavori inediti, in Belgio alla Deweer Gallery e sto pianificando una mostra istituzionale più corposa al Pori Art Museum in Finlandia, che inaugurerà nell’autunno del 2018. Sarà la mia prima mostra, in assoluto, allestita in Scandinavia.
‒ Ginevra Bria
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