Prima che le piante avessero un nome. Uriel Orlow a Torino
PAV ‒ Parco Arte Vivente, Torino ‒ fino al 18 marzo 2018. La mostra curata al PAV da Marco Scotini riporta Uriel Orlow in Italia dopo la personale tenutasi nel 2015 al Castello di Rivoli.
Linguaggio in quanto natura e resistenza della memoria: sono questi i capisaldi delle opere di Uriel Orlow (Zurigo, 1973), artista che riesce immediatamente a distinguersi – tra le migliaia di sentieri delle teorie naturalistiche del linguaggio, così come nel mare sconfinato di analisi del contesto postcoloniale – per una prospettiva attuale che non rinuncia a un accordo con la tradizione sudafricana. Un incastro di opere e rimandi: film documentaristici, fotografie e installazioni visive, partecipative e sonore, compongono un percorso immersivo, fitto di richiami – si badi, mai estenuanti od ostentati – ai meccanismi di oppressione occidentale, al capitalismo agglomerante e conformante e alle dinamiche politiche contraddittorie che fanno del mondo botanico (in tutte le sue sfaccettature, dal campo medico all’economico al decorativo) il simbolo della tempra culturale indigena.
LA MOSTRA
Prima che le piante avessero un nome: così il titolo, traducendo quello dell’installazione sonora What Plants Were Called Before They Had a Name, suggerisce all’osservatore una dimensione primigenia e necessaria, di ricerca originale dell’idea spogliata della forma – ma anche della forma derubata della sua autenticità. L’impulso più tenace è dato dalla reiterazione dell’elenco delle specie di vegetazione autoctona recitato in diverse lingue africane. Un loop che disconosce il sistema di Linneo e ogni varietà pidginizzata o creolizzata di lingua europea, rifiutando quindi la semplificazione, l’alone coloniale; dichiarando, al contrario, la nascita di una nuova ed eterea memoria orale che, liberandosi nell’essenzialità della language loyalty dei diversi gruppi etnici, scarta in dignità e fierezza il concetto occidentale di tradizione scritta.
UNA STORIA UNIVERSALE
Infine, la commovente serie degli alberi: fotografie in negativo dalla profondità magnetica che denotano una sapiente tecnica sensibile a tutti i dettagli della storia – personale e universale – e che decifrano le interazioni tra organismo e ambiente, tra linguaggio familiare e specialistico (è la naturalistica del linguaggio di Fodor; è la teoria del linguaggio naturale di Chomsky). Orlow, insomma, narra la sua storia sullo sfondo di quella dell’intera popolazione sudafricana: concede un punto di vista unico e al contempo universale, fruibile a tutti in virtù della sua morale. Una voce che non perde occasione per ribadire la profondità e l’esigenza del ricordo.
– Federica Maria Giallombardo
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