Ultime da Viafarini Docva. Intervista a Martina Melilli
Martina Melilli è un'artista italiana che si inserisce nel discorso post-coloniale. Con un approccio documentaristico, utilizza l'archivio, il video, la fotografia, per creare nuove cartografie che fluttuano tra Storia e storie, tra memorie individuali e collettive e amnesie politiche. In questa intervista approfondiamo il suo rapporto personale con la Libia e il passato coloniale italiano.
Tripolitalians (2010 – in corso) si può considerare a oggi il tuo progetto principale, che continua a generare nuove diramazioni, come ad esempio Italian – African rhyzome (2017). Nonostante questo lavoro parta dall’esperienza a te vicina, quella di tuo nonno, non è stato la prima opera che hai realizzato. Mi piacerebbe sapere quindi se c’è stato un momento o un fatto specifico, con cui hai capito che questa tua storia familiare poteva diventare del materiale da studiare, elaborare.
Sì, e a raccontarlo sembrerà abbastanza ridicolo ai più. Certamente la dice lunga sulla mia predisposizione ai voli pindarici e all’amore per le mappe concettuali e i rizomi, appunto. Nel 2010 sono andata in Erasmus a Bruxelles. L’inverno belga era davvero gelido e, io che sono molto freddolosa, ogni volta che mettevo il naso fuori di casa mi coprivo così tanto da lasciare visibili solo gli occhi. L’università che frequentavo si trovava nel quartiere a maggioranza turca e marocchina, e lì vicino c’era un bar gestito da un signore di origine marocchina molto gentile, dove ero solita andare la mattina prima delle lezioni per farmi fare il tè alla menta da portar via. Io gli parlavo sempre in francese e, dopo qualche mattina, lui si rivolse a me in arabo, allora gli dissi che purtroppo non parlavo l’arabo, ma che ero italiana. La sua risposta fu: “Scusami, devono essere stati i tuoi occhi, sono così…”. I miei occhi, ho pensato. Eppure non ho del DNA arabo dentro di me. Ma forse non si tratta del DNA, forse c’è qualcosa che dicono di me i miei occhi che è più radicato, più profondo.
Quali riflessioni ha innescato questo evento?
Lì ho iniziato a pormi molte domande sulle mie origini, le origini dei miei genitori, di mio padre e della sua famiglia, che per motivi legati alla nostra famiglia non avevo mai conosciuto a fondo, e allora ho iniziato a indagare, con i miei mezzi di ricerca e d’espressione. Parallelamente erano gli anni in cui, anche dal punto di vista teorico e di studi, stavo formando le basi della conoscenza di quelli che poi si sarebbero confermati gli interessi principali della mia pratica: l’approccio documentario, la memoria, la teoria della post-memoria, la (ri)narrazione, l’interesse e amore spassionato per gli archivi e i materiali d’archivio d’ogni genere. Mescolando tutto questo si è aperto quel vaso di Pandora che avete ben descritto, che è diventato Tripolitalians.
Sei mai stata a Tripoli? Senti qualche tipo di connessione o radice? Te lo chiedo perché per esempio i miei nonni, negli Anni Cinquanta, dall’Italia emigrarono in Venezuela, dove vissero per alcuni anni. Parte della mia famiglia è nata lì e qualche parente ancora ci vive. La mia infanzia è stata fatta anche dalla lingua spagnola, da immagini, oggetti, cibi, racconti eccetera dal Venezuela, perciò riesco a capire bene quando parli di memorie individuali e memorie collettive.
Non sono mai stata a Tripoli, anche se ho cercato di andarci per molto tempo, con un tempismo abbastanza avverso, devo ammettere. Proprio su questo presupposto si basa il mio film My home, in Libya. Come dice anche il titolo, mi sento molto legata a quel luogo pur non essendoci stata mai. Tripoli è in me da sempre, se mi permettete l’espressione, l’ho sentita nominare da che ho memoria, spesso di sfuggita, qualche menzione, qualche ricordo. Da noi a Natale si mangiava il couscous, la cucina e la casa dei miei nonni sono da sempre invasi di odori della cucina nordafricana, più che di quella tradizionale veneta. Quando ho iniziato a fare le mie domande, forzando un po’, poi gradualmente sempre di più, il muro di silenzio costruito da mio nonno sul suo passato, a ogni scoperta mi sembrava di ricomporre pezzi di me di cui ignoravo l’esistenza ma che sentivo risuonare forti. È stato quel muro di silenzio che mi ha portata a proporre a mio nonno un accordo all’inizio del percorso di ricerca: dimmi quello che vuoi, ciò che ti senti di raccontare, dammi i nomi delle persone che ricordi aver condiviso con te quel tempo e io le cercherò e mi farò raccontare da loro il resto. Così ho iniziato, spostandomi da una memoria a più memorie, da un racconto individuale a un racconto corale, che sostanzialmente diventa Storia: una versione alternativa e umana di quello che nei libri non è stato (ancora, o non esaustivamente) raccolto e scritto. Per il carattere estremamente soggettivo della memoria, l’unico modo per tentare di costruire una versione esaustiva di un racconto è raccoglierne tutte le versioni soggettive possibili, lasciando alla coralità la possibilità di coprire, scoprire, quel che è definibile verità. A Tripoli spero di metterci il mio piede reale, e non virtuale, un giorno non troppo in là nel tempo.
Nel film The Way South (1981) di Johan Van der Keuken, si parla di una storia molto simile. Nel documentario il mito post-coloniale dell’integrazione viene raccontato sia dalle esperienze dei residenti del quartiere Goutte d’Or, detto la “Little Africa” di Parigi, che da Nonna Rosa – figlia di padre italiano e madre eritrea. L’anziana vedova ci parla della sua vita in transito fra l’Eritrea, sua terra di origine, e l’Italia, Paese di cui le è attribuita la cittadinanza. Segnata da fascismo, razzismo, espulsione territoriale britannica, apartheid, decolonizzazione e, infine, dall’annessione dell’Eritrea da parte del governo etiope nel 1962, la vita di Nonna Rosa è attraversata da uno stato di esilio perpetuo, di non-appartenenza, tanto geografico che culturale. C’è questo rimosso storico di cui parli anche tu, che ci fa credere che l’Italia sia stata avulsa da certe dinamiche, ma che invece è stata anch’esso un Paese colonizzatore.
In effetti è un rimosso storico pesantissimo. Parlando del mio lavoro con le persone, dalle scolaresche durante una lecture ai visitatori di una mia mostra, o nuove conoscenze a cui semplicemente racconto a cosa sto lavorando da anni, la reazione più ricorrente sono occhi sgranati, e frasi come: “Davvero? Non ne avevo idea”, “non sapevo che nel 1969 dalla Libia sono stati rimpatriati più di 20mila italiani, ed erano solo quello che restava della comunità italiana lì residente da prima del ventennio”. “Non avevo idea che gli italiani si fossero insediati in Libia, in Eritrea, Somalia, Etiopia utilizzando le più becere modalità di occupazione che ben conosciamo riferite ad altre rinomate potenze coloniali, inclusi campi di concentramento, utilizzo di gas tossici, sterminio di massa”. Per rimanere generici, quel “non avevo idea” è ancora il problema di oggi, del 2017.
Ovvero?
Questa non conoscenza non aiuta ad avere un occhio critico su ampia scala su questa “emergenza migratoria” come una ovvia conseguenza di un passato che non viene ancora abbastanza riconosciuto. Il mito “italiani brava gente” non esiste, non è mai esistito e andrebbe sfatato una volta per tutte. C’eravamo tutti al taglio della torta-Africa. Finché non verrà tolto quel velo di oblio che copre quello che è stato il passato coloniale, colonizzatore, dell’Italia, non si troverà, a mio avviso, una reale via per l’integrazione, non si potranno muovere dei passi reali verso un futuro possibile di quello che questo Paese dovrebbe essere.
La cosa bella è che negli ultimi anni se ne è iniziato a parlare molto, nei vari campi culturali e piano piano anche politici. Opere letterarie, cinematografiche, d’arte contemporanea, nel campo della musica, un passato-presente che reclama la sua esistenza ed esprime la sua presenza.
Come nel tuo lavoro fotografico su New York (New York, New York, 2013), dove noti come l’influenza dell’immagine ci contamini in modo subliminale, non ti sembra che anche oggi, soprattutto nelle tematiche riguardanti la migrazione dell’uomo, la percezione comune sia stata altamente manipolata dai media, una pericolosa costruzione di immagini e scenari futuri allarmanti?
Assolutamente sì. L’impatto e l’influenza che le immagini mediatiche e mediatizzate hanno nella costruzione dell’opinione pubblica, e dei singoli, è totale e spaventoso. Lo è sempre stato e lo è maggiormente in quest’epoca, in cui siamo costantemente subissati di impulsi visivi da ogni lato, sorgenti di immagini costanti e onnipresenti sono parte sostanziale delle nostre esistenze, senza, spesso, un concreto approccio critico. Oggi la situazione è aggravata non solo dall’entità della diffusione e dalla facilità d’accesso, ma anche dalla libertà, apparente, di creazione dei contenuti. La quantità di materiale è tale che si è persa l’abitudine, già rara in precedenza, di verificare l’attendibilità delle fonti, chiunque può dire la sua, creare la sua e renderla di tendenza usando la piattaforma o l’hashtag giusti. In quest’epoca l’ignoranza ha le stesse possibilità di diffusione ed espansione amplificata della conoscenza. La questione delle migrazioni umane ovviamente non sfugge a queste dinamiche, essendo, volenti o nolenti, uno dei trend topic di questi anni.
Quali strategie bisogna adottare, allora, per far fronte a tale situazione?
Se da un lato mi rendo conto di stare dipingendo uno scenario agghiacciante, dall’altro noto come ci siano prese di coscienza sempre più consistenti, che cercano di diffondere un pensiero critico a più livelli, cercando di portare la riflessione su linguaggi diversi, diventando accessibili ai più, e in più modi possibili. Pensiamo anche alla produzione artistica, dove si può notare questa tendenza, quella di cercare di creare delle contro-immagini, di creare percezioni alternative richiamando anche gli altri sensi del corpo, cercando di stimolare non solo gli occhi e il sensazionalismo a cui ci hanno abituati, ma di costruire narrazioni alternative come una via di reazione possibile.
Oggi lavorare con l’archivio sta diventando predominante nell’arte contemporanea. Qual è l’approccio che usi sia nell’esplorare archivi esistenti (nella tua ricerca del passato coloniale italiano) che nel crearne di nuovi, come per esempio stai facendo con il tuo ultimo progetto Mum, I’m sorry (2017)?
Ricollegandomi anche alla risposta precedente, viviamo in un’epoca di archivi. Le nostre esistenze sono racchiuse in archivi online che autoalimentiamo costantemente producendo contenuti prevalentemente visivi (e testuali) che postiamo sulle nostre piattaforme social. I nostri profili Facebook, Instagram, Twitter – per citarne solo alcuni – sono archivi pubblici delle nostre esistenze intime. Whatsapp, le cronologie di messaggi, Gmail, archivi epistolari privati sui quali non abbiamo reale controllo. I motori di ricerca, Google, Youtube sono archivi infiniti di qualsivoglia genere di contenuto e tutti, o quasi, questi contenuti sono a nostra disposizione in attesa di essere cercati, trovati e utilizzati. Utilizzarli vuol dire appropriarsene fornendo una propria interpretazione, rileggendoli secondo la propria lente, usando il proprio punto di vista, rielaborandoli, oppure no. Si può anche decidere semplicemente di estrarli dall’ordine in cui erano stati inseriti, raggruppandoli e ordinandoli assieme ad elementi diversi, nuovi, creando un archivio che ne scombina collocazioni e gerarchie, che racconta una storia diversa. Si può decidere di sospendere il giudizio nell’analisi dei materiali di un archivio, e di creare semplicemente un archivio nuovo nel/dall’archivio preesistente. L’obiettività assoluta, ovviamente, non è contemplata perché si prendono sempre delle scelte quando ci si approccia a ogni materiale o contenuto. L’archivio nasce nella speranza, nella ricerca dell’obiettività ma esiste solo nella soggettività del singolo individuo che lo consulta.
E tu quali linee hai seguito?
Nel mettere assieme le memorie dei Tripolitaliani, raccogliendo i materiali che hanno deciso di volta in volta di fornirmi le persone che ho coinvolto e che hanno deciso di partecipare, l’idea era quella di creare nuovi collegamenti e sottotesti possibili. Io ho scelto come raccogliere (come registrare i racconti, fotografare gli album di ricordi, scansionare le foto e i testi che mi venivano inviati, ad esempio), dando una mia rielaborazione possibile in una mostra come Tripolitalians. Appunti per un film (2014), lasciando però allo spettatore, e a chi interroga l’archivio, ampio spazio di scelta su come interpretare a sua volta, e come unire i punti. In Mum, I’m sorry il materiale a mia disposizione era una serie di oggetti appartenuti a delle persone morte durante la traversata del Mediterraneo, di cui questi oggetti sono la sola cosa rimasta a raccontarne la storia, a portarne memoria. Qui la mia intenzione non era tanto quella di creare un archivio, che se vogliamo esisteva già essendo stati questi oggetti già raccolti analizzati e catalogati dalla polizia scientifica, dai medici legali, dalle procure. Quello che volevo fare era approcciarmi a questa serie di oggetti cercando di estrapolarne il racconto intimo attraverso la loro matericità, la loro esistenza in quanto corpi inanimati. Volevo creare un confronto e un dialogo con i corpi altri di cui racchiudono la testimonianza, esaltandone anche la bellezza intrinseca che possiedono, il valore estetico che mantengono in quanto oggetti assieme al contenuto, al valore emotivo e narrativo. Cosa ci raccontano di chi li aveva scelti come essenziali, come il minimo indispensabile, come “casa” da portare in un viaggio senza ritorno alla ricerca della speranza, della possibilità di. Cosa ci raccontano di quel viaggio. Cercare quindi di usare questo archivio di “prove giudiziarie” per creare un archivio di memorie, di storie di individui, di presenze in assenza, esistenze. Spero di esserci riuscita.
‒ Gabriele Longega e Ilaria Zanella
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