Artisti da copertina. Parola ad Antonio Della Guardia
Intervista all’autore della copertina del prossimo numero di Artribune Magazine. Antonio Della Guardia è il nuovo talento scoperto da Daniele Perra.
S’iscrive all’Accademia ma, sostanzialmente, non la frequenta perché “fare l’artista non significa lavorare con codici definiti”. Secondo Antonio Della Guardia (Salerno, 1990) l’artista “dev’essere sempre in dissenso”. Il padre voleva che facesse il calciatore ma lui leggeva l’Encyclopédie di Diderot e amava l’arte. Tanto che, cominciando da piccolo, ha collezionato tutte le celebri monografie Rizzoli fino a Bacon. La sua ricerca? Concettuale, colta, originale, serissima, ponderata, riflessiva e autenticamente sociale e politica.
Che musica ascolti?
Quella prima degli Anni Zero.
I luoghi che ti affascinano.
Non c’è un posto di preciso, ma tanti.
Che cosa stai leggendo?
Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni di Raoul Vaneigem e Autorità. Subordinazione e insubordinazione: l’ambiguo vincolo tra il forte e il debole di Richard Sennett.
Le pellicole più amate.
La trilogia della nevrosi di Elio Petri: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso, La proprietà non è più un furto.
Artisti (nel senso più ampio del termine) guida.
Rimango affascinato da artisti che con minimi interventi riescono ad arrivare al punctum di questioni profonde, creando dissenso all’interno di forme percettive ordinarie. Ce ne sono tanti e allo stesso tempo pochi.
Ti sei diplomato all’Accademia di Belle Arti di Napoli ma non l’hai mai frequentata. Sei tendenzialmente un autodidatta. A colpirmi è stata la tua vasta cultura, dall’Encyclopédie di Diderot alle ricerche scientifiche in vari ambiti, tra cui la psicologia. Letture importanti.
Credo che ognuno abbia le sue contaminazioni letterarie, servendosene per strutturare il proprio filone di pensiero e di ricerca. Le mie al momento sono legate all’uomo, al suo adattamento a un modello lavorativo e alle relative ripercussioni sulla vita personale.
Il tuo background culturale si evince chiaramente dalla tua ricerca, mai forzatamente concettuale ma colta, riflessiva, seria e soprattutto ponderata.
Cerco di formulare continuamente il mio lavoro in base alla funzione definita da Jan Mukařovský, una dimensione non statica ma progressiva, che cerca di confrontarsi sul piano sociale.
Mi hanno particolarmente interessato i tuoi lavori con i grafici: quelli sullo stadio dello stress o sulla curva dell’oblio o della dimenticanza. Me ne vuoi parlare?
La sindrome generale di adattamento definita da Hans Selye è un’analisi nata a Caracas per la mostra Disio. Nostalgia del futuro, curata da Antonello Tolve. Il pretesto di ribaltare la curva del grafico verso l’alto, nella fase della resistenza, è stato un tentativo di relazione verso la popolazione e la loro opposizione contro il sistema politico vigente. Mentre la curva dell’oblio teorizzata da Hermann Ebbinghaus affronta la questione su come il dilatarsi delle ore lavorative, mediante un supporto tecnologico, comporti la costante perdita di memoria. Una riflessione che si apriva a un dialogo con la tela di Penelope del 1968 di Pino Pascali, alla mostra Sensibile comune. Le opere vive, curata da Ilaria Bussoni, Nicolas Martino e Cesare Pietroiusti.
Di primo acchito i tuoi lavori non mostrano palesemente l’intento sociale e politico, sebbene questi aspetti siano molto presenti.
Sì. Attraverso un lento procedimento cerco di tirare fuori la giusta punta d’innesco, il resto dell’iceberg lo tengo per me.
Hai realizzato un progetto che riguarda il Museo Materiali Minimi d’Arte Contemporanea nel salernitano, chiuso da tempo, e una collezione abbandonata a se stessa che include un celebre cavallo di Paladino. Di che cosa si tratta?
È un museo chiuso nel 2008 dove, nonostante la sua intensa attività, oggi rimane un lieve ricordo. Attraverso un’accurata ricerca, tutto il materiale del MMMAC è stato rinvenuto e presentato alla Galleria Tiziana Di Caro di Salerno. Tutta la sua storia, accatastata per formare un grande monolite, presentava al suo interno un fioco miagolio, volto a evocare la parabola del gattino di Enrico Mattei. Un’esortazione che porta alla luce la decomposizione di una forza bloccata su se stessa, aprendosi a molteplici domande sia storiche, che politiche.
Su una banconota da 5 euro hai aggiunto degli elementi anomali: gente che bivacca sotto a un ponte. Sei riuscito a ristamparla grazie a uno scanner obsoleto, in uso prima del 2005. L’obiettivo era mettere in circolazione quella nuova banconota (falsa). Non ci sei riuscito.
Era un lavoro che nasceva dal suo fallimento, che però è stato generativo. L’idea di immetterlo in un sistema di “quotidianità” mi ha stimolato a ricercare dei procedimenti alternativi, che mi hanno permesso di raggiungere il risultato che volevo, una formula che posso innescare quando voglio.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
Ho cercato di scrutare un aspetto invisibile. Il sudore legato allo sforzo fisico si muta in un’ipotetica mappa astratta, trasformando l’indumento stesso in una pellicola fotografica.
‒ Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #41
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