La permanenza e la memoria. Gilberto Zorio a Rivoli
Castello di Rivoli ‒ fino al 18 febbraio 2018. La sede piemontese ospita una grande retrospettiva dedicata a Gilberto Zorio. Fra installazioni storiche e interventi ad hoc.
Gilberto Zorio (Andorno Micca, 1944) è senza dubbio uno degli artisti più celebri al mondo nell’ambito dell’Arte Povera. Rispetto ai colleghi Anselmo e Penone, però, l’artista biellese si differenzia per la sua eterogeneità di intenti: il neon, incandescente eppure impalpabile; le resistenze elettriche dimostrate per ossimoro nell’acustico e nel visivo; il movimento invincibile tra tecnologie attuali e simboli arcaici – basti pensare alla stella, marchio di fabbrica dell’artista. Incorporeo nell’oggetto, profondamente spirituale nel dimesso, non a caso è stato definito “l’Alchimista” e come tale sperimenta di continuo, saggia e ricerca la quintessenza capace di rivelare e di tramutare – come rendere insomma l’oggetto potenzialmente utile e allo stesso tempo splendidamente inutilizzabile.
PRIMITIVO E SOFISTICATO
L’intera collezione di Zorio esposta a Rivoli – composta da alcune installazioni storiche e altre inedite e appositamente realizzate per le sale del Castello – è un’opera primitiva e sofisticata. Primitiva, perché tra tutti i tentativi dell’Arte Povera di congiungere e amministrare la composizione e i materiali, quello di Zorio ha trovato nel simbolo primogenito la sua accattivante dimensione; sofisticata, perché nel raggiungere tale formulazione i voli pindarici sono stati piroettati e meravigliosi. Effrazioni ingegneristiche; trappole di dispositivi; giochi elusivi; informazioni sottilizzate che in metamorfosi diventano luci, cavi, microfoni, aste e tubi: sono resti persistenti che non periscono sotto lo schiacciante peso della cultura odierna che, troppo spesso, si arena nell’immaterialità da raggiungere a tutti i costi.
TRA PERMANENZA E MEMORIA
Il vero protagonista è il dialogo tra la permanenza e la memoria, che Zorio – con lo spazio di Rivoli – tiene costantemente in senno, evitando la serialità ma avvicinandosi a essa indefinitamente. Si aggiunga la perfetta compatibilità tra opera e spazio, una sovrapposizione che si preferisce nei contrasti tra buio della sala e luce del neon oppure dalla conciliazione, a tratti vacillante, tra le linee aeree e la tridimensionalità delle installazioni e le grigie “fortificazioni” dell’allestimento. Si potrebbero spostare le opere e ricollocarle altrove senza distruggere la loro sostanza, è vero; ma sarebbe difficile trovare spazi così adatti come quelli di oggi. Ecco che allora Zorio ricorda senza bollore la provocazione degli Anni Settanta, dandole ordine e ritrovata serenità nel luogo e nel tempo per passare a una rinnovata armonia di intuizioni. E ciò permane contemporaneo.
‒ Federica Maria Giallombardo
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati