L’inafferrabile essenza del tempo. A Pisa
Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi, Pisa ‒ fino all’11 marzo 2018. Fra arte, memoria e riflessione, una mostra indaga l’idea della temporalità intesa come dimensione storica e dimensione intima. Curata da Massimo Melotti, riunisce artisti contemporanei dalle molteplici sensibilità e metodi creativi.
Fenomeno fisico o concetto filosofico, mai assoluto perché variabile sulla base del metodo di misurazione scelto, il tempo è quella forza che l’umanità non è ancora riuscita a dominare, né, forse, a comprendere fino in fondo. Possibile manifestazione dell’essenza divina, o, secondo Heidegger, essenza della vita umana, il tempo ha da sempre affascinato l’individuo, ma ha cominciato a ossessionarlo soltanto con l’avvento della civiltà industriale, che lo ha sradicato dai cicli naturali dalle radici millenarie. E l’attuale rivoluzione informatica e digitale ha ulteriormente accelerato lo scorrere del tempo, frammentando l’esistenza umana in miriadi di frammenti. In quest’inizio di Terzo Millennio, è interessante riscoprire come il tempo ha segnato il Novecento, e soprattutto come l’individuo lo ha impiegato.
L’INIZIO DI TUTTO
Quando Lucio Fontana eseguì il primo taglio sulla tela, non sancì soltanto la “morte della pittura”, ma anche e soprattutto portò l’arte verso la cosiddetta “quarta dimensione”, cardine della teoria spazialista. È dal concetto di spazio, infatti, che Fontana giunge a interfacciarsi con il tempo, perché questa nuova dimensione si apre sull’infinito, che del tempo costituisce appunto il superamento. Il taglio rappresenta una privilegiata finestra d’osservazione sull’infinito, un’attesa meditativa che non ha più né inizio né fine.
Il tumultuoso irrompere dell’ossessione del tempo sull’umanità del Novecento ha inevitabilmente interessato anche il mondo dell’arte, che si sentì in obbligo morale di interpretare quel rapido scorrere che porta con sé mutamenti di usi e costumi. L’arte del Novecento è pertanto imbevuta di tempo e di spazio,
TEMPO E SPAZIO
Curando la mostra Il tempo e le opere, Massimo Melotti porta all’attenzione del pubblico una serie di suggestioni, di suggerimenti, di teorie artistiche sulla relazione, a tratti anche conflittuale, fra il tempo e lo spazio, su come lo scorrere del primo modifichi il secondo, o, viceversa, come spostamenti sul piano spaziale siano indicativi dello scorrere del tempo. Una mostra complessa, dalla lettura non immediata, eppure affascinante per come avvolge lentamente l’osservatore, trasportandolo in una dimensione che si potrebbe definire universale. Il sobrio allestimento esalta le opere, che spaziano dal video alla fotografia all’installazione, e coprono un arco di circa ottant’anni, dalle tele di Lucio Fontana dei tardi Anni Trenta alle ricerche fotografiche e musicali di Andrea Santarlasci e Mariateresa Sartori. A caratterizzare la mostra, una pluralità di linguaggi, e la scelta curatoriale di artisti complessi dal ragionamento profondo.
LA RIFLESSIONE ANTROPOLOGICA
In fondo, il tempo lo si può misurare soltanto in maniera indiretta, e il susseguirsi di una sequenza di movimenti, spostamenti, modifiche, su corpi, oggetti, paesaggi, lascia la sensazione dello scorrere di questa forza invisibile. Claudio Costa si muove lungo la china delle epoche storiche, attraverso la ricerca di reperti sulle spiagge liguri, assemblati in L’origine, suggestiva installazione con il sapore dolceamaro della memoria; l’artista li immagina infatti provenire da civiltà lontane, e in tal modo costruisce un percorso a ritroso, guidando l’osservatore in un pellegrinaggio indietro nel tempo alla ricerca di elementi magici e mitologici. L’individuo è al centro dell’indagine di Federico De Leonardis, che sviluppa la sua ricerca in senso comportamentista, sviluppando Architetture del tempo, un’opera complessa costituita da differenti momenti, dove lo scorrere del tempo è testimoniato dall’azione dell’uomo, dal suo modificare il paesaggio, o anche elementi naturali e semplici oggetti. Punto focale dell’opera, Autoritratto nello specchio convesso, con cui l’artista approfondisce quell’Esposizione in tempo reale pensata nel 1972 da Franco Vaccari e suggerisce l’idea che a modificare e distorcere il volto umano non sia soltanto l’azione del tempo, ma anche e soprattutto quel “controllo sociale” esercitato dagli altri quando il proprio volto diventa pubblico, come accade oggi con lo sdoganamento mediatico dei social-network. E, in quest’ottica, il mistero del tempo appare vilipeso, scioccamente ignorato o, peggio ancora, sprecato.
FRA STORIA, FILOSOFIA E MUSICA
Artista impegnato e tormentato, Fabio Mauri presentì già negli Anni Cinquanta il fallimento dell’ideologia, e la sua riflessione sul tempo ha un carattere storicista, esplicato attraverso opere concettuali che documentano per metafora il vuoto esistenziale che i drammi del Novecento (compresa la Guerra Fredda) hanno lasciato nella coscienza dell’umanità. Il tempo assume la statura di “successione di fatti storici”, impalpabile movimento di idee, di stragi, di sangue. Quegli schermi vuoti, quel senso di non novità, spiegano la stanchezza morale del “dopo ideologia”. Nel suo trittico in light box Andrea Santarlasci si riallaccia all’idea del tempo come dimensione fondante dell’essere umano e utilizza il fiume come simbolo dello scorrere degli eventi: Eterocronia, ipotesi di un ricordo parla del tempo che si scompone e si ricompone all’infinito, in maniera sempre diversa, secondo il concetto greco del Pánta rheî. Invece, Mariateresa Sartori “gioca” con la musica e, riunendo Mozart e Vivaldi associati alle immagini dell’opera Heimat di Reitz, dimostra come il suono possa deformare l’immagine associata e, di conseguenza, lo spazio e il tempo.
Una risposta univoca su cosa sia il tempo nemmeno la mostra riesce a darla, eppure si esce dalla visita con l’affascinante sensazione di avere a che fare con una forza per certi versi oscura, ma che, se ben impiegata, si rivela una risorsa essenziale.
‒ Niccolò Lucarelli
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