Giuseppe Chiari si fa in cinque. Tra Firenze e Prato
Sedi varie, Firenze e Prato ‒ fino al 2 marzo 2018. “L’arte è finita, smettiamo tutti insieme”, recita un suo famoso manifesto. L’ironia, la spregiudicatezza e la visione radicale di Giuseppe Chiari sono al centro di una mostra in cinque sedi che tra arte, musica e sperimentazione celebra un protagonista del secondo Novecento, non solo in Italia.
In questi ultimi tempi la riscoperta e la valorizzazione di artisti la cui ricerca non risulta inclusa in grandi trattazioni storiche o si colloca al di là delle logiche di gruppo e movimento ha conquistato biennali, fiere e rubriche (rimanendo in Italia, oltre alle ultime edizioni della mostra veneziana, si pensi alle sezioni Back to the future di Artissima e Then Now di miart, per non parlare delle colonne dedicate sulle riviste di settore). Ecco arrivato il momento di Giuseppe Chiari (Firenze, 1926-2007) che, nell’attesa di una doverosa antologica di carattere museale, è protagonista di un progetto di ampio respiro che coinvolge ben cinque gallerie private, tra la natia Firenze e la vicina Prato. Un omaggio nel decennale della scomparsa che si concretizza in un viaggio unico pensato su più sedi e affidato alla curatela di Bruno Corà. Dalle prime opere, che precedono addirittura la celebre ‒ e in parte già celebrata ‒ partecipazione a Fluxus, agli ultimi coloratissimi quanto eversivi collage, attraversando il caleidoscopio di una visione laterale sull’arte e sulla musica.
LA MOSTRA, LE MOSTRE
Cuore della mostra ed esercizio costante nell’operato dell’artista sono gli spartiti modificati. Nel percorso, o meglio, nei percorsi all’interno dei cinque spazi si trovano numerosi esempi, tanto da sostenere che lo Spartito (nelle sue versioni dagli Anni ’60 agli Anni Zero) sia di fatto il denominatore comune. Le “invasioni” di Chiari dentro e fuori i pentagrammi sono dapprima regolate, a partire da Matematica (1957) e Senza titolo (1960), e si fanno negli anni via via più libere, gestuali e dipinte come in Weisse Rose (1974) fino a An den Frühling (Anni ’90). In questa parte della sua produzione si fondono le due anime che l’autore stesso delinea nell’autobiografia del 2006: “Compone sulla tastiera con composizioni geometriche, applica combinazioni” da un lato e dall’altro, “affronta con spontaneità l’esperienza dell’improvvisazione”. Nelle gallerie Tornabuoni, Santo Ficara e Armanda Gori sono proprio le opere su carta, le tecniche miste con spartiti a essere protagoniste, insieme agli immancabili motti firmati e datati. La musica è facile (realizzato per la Galleria Martano a Torino nel 1976-77) scritto su quindici fogli, uno per lettera, ritorna con la sua forza concettuale e ironica nell’allestimento presso la galleria Frittelli insieme ai pianoforte modificati. I Gesti sul piano sono parte della visita da Il Ponte, accompagnati dalle documentazioni fotografiche come La televisione, la finestra e l’acqua sono tre specchi (1979) e Concerto per luce (1984).
L’EREDITÀ
Oggi che il cammino non lineare di Chiari andrebbe rimesso al centro di una lettura unitaria di visivo e sonoro, di arte e vita, di una contraddittoria strict randomness (come l’avrebbe chiamata George Brecht), si auspica che le mostre e il catalogo riaprano il dibattito su una figura determinante, anche sul piano critico. Attraverso le dichiarazioni radicali, la creatività esplosiva e l’irriverenza verso sistema e mercato, l’artista-compositore ha definito una linea, seppur spezzata, più che mai attuale, sempre in bilico tra serietà e irrisione. In fondo, “non dimenticare la parola arte è solo / una / parola. Puoi girarci intorno”.
‒ Claudio Musso
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