Osservatorio curatori. Claudia Contu
Tra le nuove leve della professione più discussa nel mondo dell'arte c’è Claudia Contu (Prato, 1993). La curatela, nel suo caso, è intesa come un processo ampio che si allarga ai lati della mostra in sé e che in essa cerca di dare una profondità che va oltre le opere. Alla sua prima esperienza al Castello di Legnano con la personale di Dario Maglionico sono seguite mostre a Vienna, Milano, Cochabamba in Bolivia, Varese e prossimamente anche a Monaco di Baviera. Ecco la sua testimonianza.
La prima mostra che ho fatto l’ho fatta grazie a un artista. Da allora il mestiere del curatore, per me, si è legato all’idea di relazione, di continuità fisica con l’opera, di lavoro che non inizia con la redazione di un progetto espositivo e non finisce col disallestimento. La mostra comincia quando ci si stringe la mano per la prima volta, ed è compito del curatore far sì che quello che si è fatto, detto, visto insieme si rifletta nell’esposizione. Non storytelling, ma far intuire al visitatore che c’è altro oltre l’opera: questo è lo scopo.
Mi piace e mi diverte molto avere a che fare direttamente con gli artisti, soprattutto quando in loro rilevo un’attività costante di studio, curiosità e un certo piglio ossessivo che li porta a provocare cortocircuiti in idee che avrebbero ritenuto fondamentali fino al minuto precedente.
Penso spesso a quella domanda posta da Philippe Parreno: “Is the exhibition a film without a camera?”. Certo, la mostra, come un film, si basa su un processo di collaborazione, ma in fin dei conti non è che un frame interno alla pellicola. Tutto il resto, quello che non è ripreso, fa comunque parte del film: gli studio visit, le inaugurazioni, le chat su Facebook e i messaggi vocali.
Forse sembrerà ingenuo, ma ho una visione che è figlia di curatori come Harald Szeemann e che ha a che vedere con un approccio fenomenologico all’opera d’arte. Non ritengo interessante immobilizzare l’oggetto di studio e analizzarlo al microscopio: questo è un compito che lascio ai critici. Mi interessa invece osservare un mistero vivo e in continua evoluzione, quello di cui parla Georges Didi-Huberman descrivendo la parabola della falena di Aby Warburg. Mi piace pensare al mio lavoro come un pretesto per mettere sempre in discussione la capacità di capire l’opera e il suo artista.
LEGGERE UN’OPERA
Sto lavorando a un progetto che nasce proprio dalla domanda se per caso vi sia un modo giusto o sbagliato di leggere un’opera e come poi si evolva il nostro giudizio quando a intervenire è l’artista stesso o un altro mediatore. Possiamo davvero, come fruitori, ritenerci capaci di dare una lettura coerente di ciò che abbiamo davanti? E in più: ce n’è poi così bisogno? Ritengo necessario e affascinante porsi queste domande, dal momento che spesso la pratica curatoriale finisce proprio per “incasellare” significati per creare una bella vetrina.
Ho visto e fatto mostre atte a evidenziare l’acume critico e la capacità prosaica del curatore, forse per quella fobia tutta contemporanea di non avere qualcosa di intelligente da dire. A volte, semplicemente, si ha poca onestà intellettuale e ci si dimentica quale sia l’etimologia della parola “cura”. Io invece vorrei ricordarlo sempre.
‒ Dario Moalli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #40
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