Arte contemporanea italiana. Le nuove riflessioni di Raffaele Gavarro
Raffaele Gavarro torna sulla questione dell’identità dell’arte italiana, sottolineando l’urgenza di scrollarsi di dosso il culto del passato.
Torno sulla questione di quale sia oggi la natura dell’arte italiana, e cioè all’interrogazione se esista, nel nostro presente, un qualche paradigma che possa restituirne un’immagine, nonché una sostanza, unitaria piuttosto che multipla.
Prima di tutto, mi preme però chiarire che la natura di questa riflessione, come del dibattito che sta sviluppando, e credo in tal senso di poter parlare a nome di tutti, non ha nulla a che vedere con la necessità dell’affermazione di un qualche valore nazionale o, naturalmente ancora peggio, nazionalista, a sfavore del naturale sentimento di appartenenza all’Europa, o persino di quell’apolidia che, in modo temporaneo o anche permanente, ha riguardato e riguarda molte delle persone che fanno arte o se ne occupano.
Tanto per capirci meglio, possiamo provare a utilizzare un’analogia: dato per scontato che tutti noi italiani, tanto in Italia che nel mondo, parliamo una stessa lingua, si tratta di capire cosa stiamo dicendo con essa. Se cioè quei discorsi corrispondono a un senso riconducibile a una matrice comune, e soprattutto di quale tipo sia quest’ultima, sempre se c’è, naturalmente.
Riprendendo il filo dei miei ragionamenti ho deciso, come dicevo, di tornare sulla questione, da una parte perché consapevole di non avere espresso compiutamente, nel precedente articolo, la mia riflessione in quel breve accenno finale alla necessità preventiva di una comprensione della realtà per comprendere non solo il senso dell’arte che ne è parte, ma anche il ruolo che ha; dall’altra perché stimolato dalla recente lettura del reportage edito da il Mulino, Viaggio in Italia – Racconto di un paese difficile e bellissimo (6/2017) curato da Gianfranco Viesti e Bruno Simili, che consiglio vivamente.
Il racconto del viaggio è introdotto da un saggio dello stesso Viesti (Professore di Economia Applicata all’Università di Bari) che riflette su quanto emerge dai sessanta saggi dedicati ad altrettante città, territori e regioni del Bel Paese, tra i quali doppie riflessioni sono dedicate a Napoli, Milano e Roma.
Questo viaggio-racconto ha, com’è noto, un precedente in quello scritto da Guido Piovene nel 1957, che seguì una trasmissione radiofonica realizzata dallo stesso Piovene per la RAI dal 1953 al 1956 e che trovate qui. Lo scrittore e giornalista vicentino racconta “le cose viste” nel corso del suo viaggio e lo stesso Viesti, nella sua introduzione, ne cita una delle considerazioni finali più celebri: “Un Paese oscuro a se stesso, nel quale tutti soffrono più malesseri che dolori, senza capire con chiarezza il perché”.
Tornando al recente viaggio de il Mulino e al nostro discorso, mentre leggevo non potevo fare a meno di domandarmi come sarebbe stato il quadro se al fianco dei sessanta capitoli redatti perlopiù da giornalisti, economisti, sociologi, storici e urbanisti, ce ne fossero stati altrettanti scritti da autori protagonisti della produzione culturale di questi anni: scrittori, artisti, critici, poeti, registi, filosofi. Si sarebbero rispecchiate “le cose viste” dagli uni in quelle degli altri? Probabilmente sì. Magari con meno analisi di flussi di big data e meno dati conseguentemente scomposti, ma con conclusioni in definitiva non molto diverse, anche se di certo diversamente argomentate.
UNA GABBIA NOSTALGICA
Il quadro che emerge dall’indagine de il Mulino è caratterizzato da luci e ombre, ma soprattutto da differenze tra luogo e luogo e ancora di più tra l’oggi e lo ieri, dove quest’ultimo, la nostra storia, appare sempre più una pericolosa gabbia nostalgica con tanto di lucchetto serrato, e dove il futuro, o perlomeno la predisposizione al suo inevitabile avverarsi, ci trova perlopiù inattivi nel presente, con l’inevitabile conseguenza della necessità che avremo di ricorrere all’improvvisazione o, per meglio dire, al più nostrano arrangiarsi.
Il Paese è plurale, ma io direi meglio che è fatto di plurali difficilmente conciliabili, di grandi centri molto diversi dai suoi stessi margini, e di piccoli centri che faticano a ritrovare una propria autonomia marginale. Nondimeno il Paese è teatro di differenze generazionali altrettanto inconciliabili sino dalle primarie esigenze del quotidiano. Differenze e contrasti molto diversi da quelli che hanno conosciuto le donne e gli uomini nati negli Anni Sessanta e Settanta rispetto ai propri genitori, che nella stragrande maggioranza dei casi erano più di natura culturale e ideologica, e che oggi sono invece circoscritti alla concretezza di un’impossibilità al naturale affrancamento esistenziale, famigliare e professionale. Il problema è che l’insicurezza indotta da una precarietà costante e che, ove possibile, trova un punto di stabilità solo nella famiglia d’origine, ha finito inevitabilmente con il trasmettersi a quest’ultima, non senza il complemento di un senso di colpa aggravato dall’incapacità, non priva di buona fede, di individuarne le responsabilità, e soprattutto le proprie individuali prima di quelle collettive.
La frammentazione spaziale e temporale, sia quindi territoriale che di un più equilibrato dialogo tra passato e presente ma soprattutto di un atteggiamento progettuale nei confronti del futuro, appare dunque come il risultato di molteplici pluralità che sono la somma di molti elementi con la caratteristica di essere parecchio diversi tra loro. In termini matematici potremmo parlare dell’Italia di oggi come di un polinomio costituito da molteplici termini e che appare impossibile ridurre in forma normale, sommando cioè gli eventuali monomi simili che lo compongono. Ma per fortuna la vita e le cose non sono quasi mai riducibili a regole e formule matematiche, con buona pace della statistica e della datacrazia.
Anche se va detto che proprio la statistica ci aiuta a capire, almeno in parte, le ragioni di una percezione dell’immigrazione come invasione del suolo patrio. Nel racconto de il Mulino si sottolinea giustamente che l’immigrazione è vissuta in tal modo anche in conseguenza del contemporaneo calo demografico che sta invecchiando il Paese e riducendo la consistenza numerica della popolazione indigena. Le ragioni di questo sempre più vistoso calo sono ovviamente e ancora riconducibili alla precarietà economica generale e in particolare di quella delle nuove generazioni. Un dato che non può essere dissociato dalla sempre maggiore divaricazione tra chi ha molto e chi ha poco, o nulla.
CONTINUITÀ E DIVERSITÀ
Proprio quest’aspetto di una mancata redistribuzione della ricchezza, che sta generando diseguaglianze sempre maggiori, è una delle possibili porte d’ingresso per capire anche ciò che accade nell’arte italiana di oggi. In questo senso ha ragione Pino Boresta nel sostenere che il sistema dell’arte italiano basa molto della sua regolamentazione sulle differenze tra chi se lo può permettere e chi non, sull’economia famigliare e sulle reti relazionali dei primi, e dove spesso i secondi sono condannati a una marginalizzazione che equivale quasi sempre a una prematura morte professionale. Non molto dissimile è la condizione per critici e curatori, più per quest’ultimi in verità, dato che il sistema nel quale operano è ovviamente lo stesso.
L’individuazione di questa condizione di selezione sociale ed economica, la stessa che naturalmente insiste in altri ambiti professionali, naturalmente poco ci dice del carattere della nostra arte, pur fornendo un parametro decisivo sulla provenienza sociale dell’arte che guardiamo, almeno per la sua grande maggioranza. Potremmo dunque definire questa condizione come un preambolo alla formulazione del paradigma sul quale ci arrovelliamo.
Da tenere in altrettanta considerazione, come dato preliminare, è una certa differenza tra l’arte prodotta nelle diverse città, che evidentemente è riferibile alle diversità tra luogo e luogo e delle quali abbiamo comune esperienza, come ci conferma anche il racconto de il Mulino. Milano, Torino, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Palermo sono tra i centri urbani con un’identità artistica più marcata, che segue, almeno in una certa misura, quella socio-storico-culturale-economico-politica che li caratterizza.
Apparentemente riconducibili solo a riflessi psicologici nei confronti della tipologia e dello stato dei luoghi – la neomodernità europea di Milano, il disorientamento postindustriale di Torino, l’apatia postpolitica di Bologna, la definitiva turisticizzazione di Firenze, la depressione ormai cronicizzata di Roma, l’inesauribile vitalità nel farsi e disfarsi di Napoli, l’incertezza endemica di Palermo – l’arte, ma molto meglio dire gli artisti, invece, fanno diretto riferimento all’ambiente in cui agiscono mettendo in forma ed elaborando linguaggi che hanno una chiara intenzione di significare il senso di quella realtà nella quale la loro opera andrà a occupare un posto prima invisibile.
Quello che sto dicendo presuppone la considerazione che oggi l’opera d’arte sia una delle componenti effettive della realtà, non più dunque una rappresentazione del mondo ma un elemento costitutivo di esso.
L’opera d’arte di oggi è la concretizzazione di un paradosso determinato dal suo essere tanto in continuità con la realtà, quanto il contemporaneo manifestarsi di una diversità di senso rispetto a quest’ultima. Ed è proprio da questo paradosso che consegue quell’assenza d’immediatezza che impedisce una sua più ampia e semplice comprensione, e che rende nondimeno complicata una sua definizione in parametri consueti, resi tali dalla storia.
Naturalmente non sono solo i grandi centri urbani ad avere scene significative dell’arte italiana, come va anche detto che non sono pochi gli artisti italiani che hanno lasciato il Paese e vivono più o meno stabilmente sparsi tra Berlino, Bruxelles, Vienna, Parigi, Londra e gli Stati Uniti. Tra i primi ci sono situazioni che, pur partendo da elementi storici analoghi, sono oggi realtà molto diverse. Solo per fare qualche esempio, si pensi alla situazione di Prato e alla mutazione del suo distretto industriale “dove ormai l’imprenditoria cinese copre l’80% della produzione di abbigliamento”, e a quella di Bergamo e della valle Seriana, passate dalla ricchezza prodotta dal cotonificio Honegger e dal suo indotto, a un depauperamento pressoché totale del settore sostituito da una minima diversificazione industriale e soprattutto dalla ricerca di una nuova identità turistica. Sono due esempi che, oltre a rimandare a produzioni industriali all’origine analoghe e a una realtà sociale imprenditoriale e operaia molto simile, sono per noi molto significativi perché entrambi hanno un museo d’arte contemporanea di primaria importanza per il sistema dell’arte italiano. Oggi però questi due musei, con origini e storie differenti tra loro, devono fare i conti con realtà di primo riferimento, territoriali, in forte cambiamento, alle quali corrispondono realtà artistiche che inevitabilmente si formano al loro interno e alle quali i musei dovranno necessariamente corrispondere, sia per avere con la propria comunità artistica una fondamentale relazione sinergica, ma non da ultimo per stabilire un contatto con quello che è il loro primo pubblico di riferimento.
ITALIANI ALL’ESTERO
Sui secondi, sugli artisti che vivono fuori dai confini nazionali, i discorsi da fare non sono così dissimili da quelli che hanno deciso di restare, o non hanno avuto i mezzi per andare via. Molto spesso costituiscono comunità nazionali alle quali corrispondono sia per ragioni umane, relazionali, che più propriamente artistiche. Organizzati, come Peninsula a Berlino, o meno, si portano inevitabilmente dietro le questioni di provenienza, sia quelle dedotte dalla loro realtà che quelle più propriamente artistiche. Anche se va detto che nel tempo questo loro stare in realtà diverse produce, o non mancherà di produrre, riflessioni e sintesi inedite.
Naturalmente dobbiamo qui limitare il nostro discorso a pochi esempi e accenni, anche se, come dicevo, sarebbe oltremodo interessante un dettagliato racconto sull’Italia fatto dagli artisti e dagli intellettuali che vivono, conoscono e interpretano le condizioni dei vari territori.
Ma veniamo al punto che qui ci interessa: c’è dunque qualcosa che tiene insieme l’arte italiana di oggi? Ed eventualmente di cosa si tratta?
Lo so, si sarebbe tentati di dire che si tratta di una capacità unica di mettere in forma, o addirittura si potrebbe cedere alla tentazione di fare riferimento alla prospettiva, alla conseguente visione del mondo che si forma nella mente e nell’occhio italiano e di conseguenza prende forma grazie alla sua mano, finendo per trovare insomma il denominatore comune dell’italianità della nostra arte nella storia, nel nostro passato, nel suo riflesso o, per dirla con Michael Foucault, nella sua ombra che si allunga fin sul presente.
Proprio a questo proposito, in una raccolta di lezioni, tenute tra il 2012 e il 2013 all’Accademia di Architettura di Mendrisio e pubblicate nel 2017 da Neri Pozza con il titolo Creazione e anarchia – L’opera nell’età della religione capitalista, Giorgio Agamben, in particolare nel primo capitolo intitolato Archeologia dell’opera d’arte, e nel secondo Che cos’è l’atto di creazione?, dice cose come sempre molto interessanti sul rapporto tra presente e passato, e in particolare di come siano essenziali per comprendere l’arte di oggi.
Com’è noto, uno dei punti di partenza di questo genere di riflessioni di Agamben è da rintracciare proprio nel pensiero di Foucault, per il quale “l’indagine sul passato non è che l’ombra portata di un’interrogazione rivolta al presente”. Una posizione che Agamben aveva già espresso in Che cos’è il contemporaneo (Nottetempo, 2008).
Non posso negare di subire una forte fascinazione, e nondimeno un certo conforto, da quest’idea, come da quella che Agamben desume da Nietzsche sull’inattualità come carattere della contemporaneità.
Pensare che l’arte del nostro passato, come del resto anche quella del passato dei greci, degli spagnoli, dei francesi, e più in generale degli europei, sia lì a giustificare, o meglio a dare senso a ciò che è l’arte di oggi, fa l’effetto di un buon ansiolitico, restituendoci quella tranquillità perduta di fronte all’irrilevanza della nostra arte, e intendo soprattutto di quella italiana, in ambito internazionale. Certo si potrebbe liquidare la questione con un anche leggermente stizzito: è senz’altro colpa di chi, dentro e fuori i confini europei, non avverte o non comprende la forza della storia che espiriamo. Ma potremmo anche dire che si tratta di una delle tante conseguenze di un sistema dell’arte basato ormai su una finanziarizzazione governata dai soliti manovratori delle leve economiche, e che evidentemente non ci vede tra di loro.
OLTRE IL PASSATO
Tutto vero, almeno in parte. Dall’altra, io credo, dovremmo invece riconoscere come l’arte di oggi sia molto differente da quella del passato, compresa quella banalmente postduchampiana, e che quindi un semplice, e soprattutto univoco, ricorso alla storia come mezzo per la comprensione di quello che è oggi, non sia più sufficiente. L’impatto con la realtà che ci circonda, iperpotenziata da una digitalizzazione che cresce in modo esponenziale, è infatti talmente violento da alterare anche quella relazione con la storia che da sempre ci ha fornito coordinate fondamentali per la comprensione del presente, e in parte anche del futuro.
Uno stravolgimento che ha riguardato anche quel pensiero estetico che per oltre due secoli ha tendenziosamente problematizzato non solo l’arte di quei tempi contemporanea, ma anche quella del passato, per poi finire con il porre una pesante ipoteca su quella del presente, quella che cioè viviamo e che non riusciamo, soprattutto nel nostro Paese, a sbrogliare dalla matassa di quelle stesse problematiche.
Una difficoltà che è anche conseguenza di un’educazione scolastica e accademica all’arte, e alla sua storia, che da questo punto di vista fornisce pochi e incerti strumenti critici grazie ai quali tentare un qualche affrancamento.
Eccoci dunque arrivati a uno degli snodi principali della questione sulla quale stiamo ragionando.
Molta della cultura e dell’arte italiana di questi anni, partendo dal cinema e finendo con le arti visive, è accomunata da una certa impossibilità, o incapacità, a sentirsi parte di una realtà in profonda mutazione, se non proprio in radicale rivoluzione, trovando nella continuità dell’estetica – intesa come qualità essenziale dell’arte prima che come sua filosofia di riferimento – , e non tanto quindi nella storia in sé quanto nella storia (dell’arte) da quella ricondizionata, una certezza che è tanto convalida del proprio fare quanto garanzia di differenza rispetto a ciò che è fuori di sé, e cioè di quella realtà in veloce e incomprensibile trasformazione.
Anche se appare solo come una definizione in negativo, dall’esperienza sul campo deduco che questo sia invece un concreto sentire ampiamente diffuso, un vero e proprio filo rosso che attraversa molta, anche se non tutta, arte italiana. Si tratta di un fondamento culturale che trova evidenti analogie, pur nelle differenze tipologiche, con le stesse problematiche segnalate da Viesti e dagli autori del Viaggio in Italia.
Non è quindi il passato in sé, il pensarlo come una risorsa, a essere il problema italiano dentro e fuori l’arte, quanto lo è l’idea della storia utilizzata banalmente come modello ideale e retorico per il presente e ovviamente per il futuro. È come se, intimoriti dallo svolgersi delle cose e da quelle che verranno, ci fossimo costruiti una sorta di capsula del tempo con dentro le cose “belle” del passato e naturalmente noi stessi.
Che fare? continua a chiederci Mario Merz dal lontano 1968. Io credo che la risposta continui a non essere semplice, ma di sicuro non può, e non potrà, più passare unicamente per uno sguardo retroverso. Io sono convinto che, oggi più che mai, sta proprio alla cultura e all’arte far comprendere alla politica e alla collettività la specificità del nostro presente e del futuro che ne conseguirà. E per riuscire in una simile impresa, che sinceramente appare poco meno che impossibile, si dovrà avere il coraggio di affrontare e di stare nella complessità della nostra realtà, raccontandola e partecipando a essa, anche se questo potrà significare il tradimento di quella retorica narrazione rassicurante, grazie alla quale ci siamo autoeletti come privilegiati eredi di una gloriosa storia estetica. Un tradimento indispensabile.
‒ Raffaele Gavarro
P.S. Questo testo è stato scritto nei giorni che hanno preceduto le elezioni politiche del 4 marzo, subendone tutte le incertezze, le paure e le frustrazioni. Ma devo dire che soprattutto è il sentimento della disillusione ad aver avuto la meglio, indotto dalla consapevolezza che nessuno dei protagonisti di questa scena politica abbia gli strumenti per affrontare la complessità nella quale siamo.
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