Un artista in anticipo. Francesco Lo Savio a Roma
Galleria Sergio Casoli Mattia De Luca, Roma ‒ fino al 7 luglio 2018. Lo spazio romano riaperto dopo 17 anni fa da cornice a una mostra-omaggio in memoria di Francesco Lo Savio.
Quello che fu uno degli studi di Mario Schifano, al pianoterra dell’edificio nobiliare di piazza Campitelli, riapre grazie alla passione di Sergio Casoli, storico gallerista, e Mattia De Luca, collezionista. La prima personale è dedicata a Francesco Lo Savio (Roma, 1935 ‒ Marsiglia, 1963) e raccoglie lavori su carta, schizzi e progetti per la Maison au soleil, Metalli curvilinei piegati e assemblati, tele rarefatte della serie Spazio-Luce e due Articolazioni Totali del ‘62, geometrici cubi bianchi che, aperti da un lato, custodiscono lastre nere ritorte su sé stesse.
Un percorso silenzioso, architettato in modo asciutto, rigoroso quanto l’artista: consapevole e maniacale nell’aspetto progettuale, esecutivo e teorico (aveva personalmente curato nel ‘62-‘83 tutto il volume Spazio-luce alla memoria di Piet Mondrian, occupandosi sia dei testi che delle fotografie).
TROPPO PRESTO
Anni Cinquanta-Sessanta. C’era Roma, c’erano gli amici come Emilio Villa (che già nel ‘59 aveva presentato due suoi lavori su Appia antica per poi invitarlo alla galleria Selecta) e gli artisti di Piazza del Popolo (tra cui il fratello Tano Festa) Nel ’62 la sua prima occasione importante: Lo Savio espone alla Salita di Gian Tomaso Liverani tre Articolazioni Totali, ma in quell’occasione tanto attesa tutti gli amici erano assenti, tranne Argan, Palma Bucarelli e pochi altri, come racconta Paola Pitagora in Fiato d’Artista. Lo Savio non si sentiva romano, non si sentiva italiano: “Era semplicemente arrivato troppo presto” o nello spazio sbagliato.
DA UNCINI A VILLA
Uncini racconta: “Incontrai a una mostra Emilio Villa che ci organizzò una mostra alla Galleria Appia Antica a Roma…c’incontrammo e m’invitò alla mostra che era fatta da Manzoni, Lo Savio, Schifano e me… E così cominciammo a parlare tra noi artisti. Parlavamo di azzeramento, di dover azzerare tutto e partire di nuovo da zero, dalla tavola bianca…Poi alcuni, Schifano, Festa, Angeli sbarcarono nelle Pop Art invece io e Lo Savio continuammo con le nostre idee un po’ più tignose, un po’ più severe, poco attenti a quello che succedeva, a certe avvisaglie di alcune mode che continuano fino a oggi. Insomma, quello che si dice i favolosi Anni Sessanta secondo noi che li abbiamo vissuti non erano favolosi per niente, anzi molto ma molto faticosi. Il nostro minimalismo era quasi nel cuore del problema, era nell’intimo”.
Disperato amico mio sono le ultime parole scritte per lui da Emilio Villa. Un genio extra-ordinario sfinito a soli ventotto anni nel rigore mistico di quella ricerca spazio-luminosa fatta di forme appartenenti a una “realtà quasi impossibile”, aperte a un’alterità sconfinata.
‒ Federica Bianconi
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