Siamo programmati per essere interessati alla violenza. Intervista a Mat Collishaw

In occasione della sua mostra “Standing Water” alla galleria pubblica Rudolfinum a Praga, abbiamo intervistato l’artista britannico Mat Collishaw, uno tra i massimi esponenti della YBA – Young British Art, insieme ai “compagni di crimine”, fra gli altri, Damien Hirst e Tracey Emin (che per cinque anni fu anche la sua compagna). Collishaw, celebre per il suo immaginario visivo perturbante, ci ha raccontato del suo modo di lavorare, degli autori che lo ispirano e del perché l’essere umano è da sempre ossessionato dalla violenza (e forse è un bene).

Com’è stato il tuo viaggio dal famoso Bullet Hole del 1988 a oggi?
Mah, ho semplicemente lavorato alle cose che ho trovato interessanti. Non ho un’“agenda” specifica di quello che faccio come artista. Sono interessato a certe cose sulle quali faccio le mie ricerche e contemporaneamente studio diversi media, come le illusioni ottiche o le immagini 3D. Dopo cerco di trovare una tecnica formale per l’idea che ho, per poterla comunicare in modo comprensibile. Quindi in pratica passo da un soggetto all’altro sperando sempre che ci sia un filo conduttore che unisca, da ormai più di trent’anni, tutto il mio lavoro, perché in generale lavoro un po’ a occhi chiusi, fidandomi molto del mio istinto. Il subconscio è molto bravo a sapere che cos’è che ti interessa a livello primario e io seguo le sue istruzioni.

Il tuo approccio è istintivo anche nella fase successiva?
È collegato a un approccio molto tecnico per riuscire a trovare la migliore configurazione per materializzare le idee, che qualche volta sono parecchio complicate e per questo necessitano di molta sperimentazione, numerosi fallimenti e di successivi aggiustamenti perché, qualche volta, magari riesci a far funzionare una cosa tecnicamente, ma non ha quell’aspetto che volevi avesse, così poi devi ridisegnare l’apparato tecnico per farlo diventare appropriato all’idea che stai tentando di sviluppare. Quindi cerco di far sposare queste due cose: i problemi tecnici legati alla presentazione di un lavoro con le idee arrivate in modo intuitivo.

Le tue opere, pur essendo molto complesse anche dal punto di vista tecnico, sembrano comunque piuttosto accessibili, effortless, senza sforzo.
Sì, penso sia estremamente importante che i lavori appaiano accessibili e immediati. Così le persone, osservandoli anche soltanto per un paio di secondi, possono capirli abbastanza facilmente. Mi sforzo tantissimo di semplificare e semplificare ancora fino a quando non è tutto compatto e concentrato, ma, se tutto va bene, stratificato all’interno. Quindi in apparenza semplice, ma carico dentro.

Tutti i grandi artisti sono effortless, o no?
Assolutamente sì, ed è anche una tecnica dei prestigiatori, che spendono tanto tempo a creare un’illusione che poi sembra avvenga in modo naturale.

Mat Collishaw, Albion, 2017. Courtesy the artist and Blain Southern. Photo Peter Mallet

Mat Collishaw, Albion, 2017. Courtesy the artist and Blain Southern. Photo Peter Mallet

Il titolo della tua mostra, Standing Water, descrive molto bene la tensione e il dramma nascosto presenti nel tuo lavoro. Potresti dirci di più?
L’acqua è, ovviamente, una superficie riflettente e un’immagine riflessa dentro uno specchio d’acqua è probabilmente stata la più antica immagine che abbiamo sperimentato. Ma il titolo implica anche che, quando la superficie dell’acqua è calma, sotto sta molto probabilmente accadendo qualcosa di malvagio, qualcosa di marcio, putrido e malato. Quindi, sotto la superficie bella e pulita c’è potenzialmente un’oscurità e una fetida e marcia bruttezza.

Le tue opere inizialmente ci attraggono proprio con la loro bellezza, per poi condurci, appunto, negli antri oscuri del tuo immaginario.
Faccio così perché me l’ha insegnato la natura. I fiori hanno quelle belle forme che amiamo guardare, ma il motivo della loro bellezza è di attrarre farfalle e altri insetti per propagare il polline. I fiori, quindi, tramite la loro avvenenza fisica, manipolano gli altri. Per cui, di fatto, la loro bellezza esiste solo per ragioni molto egoistiche e questo lo trovo piuttosto affascinante. Poi, per esempio, c’è la religione, che usa la bellezza – in architettura, pittura ecc. – per sedurre al fine di far credere in qualcosa. Perciò la bellezza può essere molto pericolosa, perché è uno strumento di manipolazione molto efficace. Basta pensare alla propaganda politica, come i film di Leni Riefenstahl o l’architettura di Albert Speer, o le uniformi di Hugo Boss: tutte queste cose sono state create per manipolare le masse, per ragioni molto cattive. La bellezza non sempre rappresenta la verità e bontà, ma può, al contrario, avere a che fare con il male, con intenzioni malvagie. Devo dire che la bellezza non è un soggetto molto alla moda adesso nel XXI secolo, ma per me è interessante studiarla come fenomeno visivo. Le immagini con cui mi piace lavorare – arte, pubblicità o propaganda – mi interessano per il modo in cui influenzano il nostro rapporto con il mondo. Questo è probabilmente il mio interesse numero uno. E poi l’arte. Questi sono i due temi che cerco di fondere insieme nel mio lavoro.

Qual è allora la tua definizione di bellezza?
È come una rosa con le spine. Se hai una rosa senza le spine, è troppo carina e basta. Deve esserci insieme quella bellissima crudeltà, perché è lei che rende la bellezza ancora più bella. Senza il contrasto, senza il suo contrario, è soltanto vuota.

Un altro tema spesso presente nel tuo lavoro è la violenza, penso ad esempio allo zootropio All Things Fall.
È la questione del perché siamo attratti dalla violenza a interessarmi. Mi stavo chiedendo per quale motivo ci piace guardare i combattimenti dei gladiatori, la tauromachia, i giochi al computer violenti e i cartoni con Tom & Jerry o certi dipinti. E dopo aver letto numerosi testi sulla psicologia evolutiva, ho capito che forse non è una cosa del tutto negativa. Quando si verifica un evento violento, il che non capita così frequentemente, di solito è una cosa molto drammatica e le conseguenze sono spesso terribili. Quando succede è giusto che prestiamo attenzione al fatto che potremmo essere in pericolo, quindi siamo in allerta, siamo preparati. Ovviamente l’evoluzione non è perfetta, se penso a come, mentre guidiamo una macchina, guardiamo da stupidi un incidente magari facendone subito un altro… Questo probabilmente non ci aiuta, ma il nostro software nel cervello non lo sa, dice: “Dagli un’occhiata perché è qualcosa di drammatico e potresti imparare qualcosa”. Magari a guidare meglio la prossima volta. Per cui sono interessato a come ci affascinano queste immagini violente e per quale motivo. E provo a coinvolgere il pubblico, facendogli provare il piacere di guardare queste immagini atroci e, forse, più tardi a interrogarsi del perché gli siano piaciute.

Mat Collishaw, Wet Collodion, (Selfportrait). Courtesy the artist and Blain Southern

Mat Collishaw, Wet Collodion, (Selfportrait). Courtesy the artist and Blain Southern

È soltanto la natura umana o c’è qualche altra risposta?
Siamo semplicemente programmati dall’evoluzione a essere interessati alla violenza.

In antichità la violenza era forse ancora molto più esposta, ma lo è abbastanza pure oggi, sebbene in modo diverso…
… e ne siamo tuttora ossessionati. Però penso ci sia sempre meno violenza, nonostante i media cerchino di convincerci del contrario per vendere meglio i loro prodotti. Ci piace guardare queste fotografie terrificanti che ci fanno pensare il mondo come un posto molto pericoloso, ma in realtà è più sicuro che mai.

Forse guardarle ci fa sentire più “vivi”.
Sì, esattamente, ci sentiamo come se fossimo dei sopravvissuti.

Il tuo lavoro è fortemente collegato alla storia dell’arte, ai pittori come Delacroix, Géricault o Caravaggio. È il dramma senza pathos che ti affascina?
Sì, e anche l’immediatezza con cui riescono ad arrivare al pubblico. Sono senza abbellimento, non idealizzano, sono quasi brutali e riescono a comunicare con le persone che non devono per forza aver studiato la storia dell’arte o stare a sentire gli ecclesiastici o gli storici dell’arte. Arrivano dritti al punto. Ma nelle loro opere c’è anche molta compassione e sensualità, sentimenti che fanno parte di questi meccanismi di comunicazione istantanea con la gente.

E la decadenza? Spesso viene nominata, descrivendo il tuo lavoro.
Penso di essere stato influenzato dagli autori come Baudelaire e Joris-Karl Huysmans, che scrisse A ritroso. Non è che abbia scelto apposta di essere attratto da quello che è macabro o malato, ma quando ho letto questi autori mi sono detto: “Sì, è questo il mio tipo di sensibilità!”.

Dall’altro lato dell’oscurità c’è la luce però. Dove è la tua?
Penso che in alcuni miei lavori ci sia un po’ di senso dell’umorismo. Per esempio il mio autoritratto come Narciso, dove sono sdraiato in una strada fangosa fissandomi in una pozzanghera, fa un po’ ridere, direi. Forse pure nello zootropio All Things Fall si trova un pizzico di ironia. Comunque, se crei un lavoro fatto bene su qualcosa di molto brutto, alla fine diventa sempre una cosa positiva, perché riesci a comunicare con le persone, le quali, dopo aver vissuto un’esperienza un po’ inquietante, si sentono meglio. È una sorta di catarsi ed è qui che sorge la luce, secondo me.

Mat Collishaw, All Things Fall, 2014 (particolare). Courtesy the artist and Blain Southern. Photo Todd White Art Photography

Mat Collishaw, All Things Fall, 2014 (particolare). Courtesy the artist and Blain Southern. Photo Todd White Art Photography

Ci fai spesso vedere il lato più tetro dell’essere umano ma sembra lo mostri senza esprimere un giudizio morale, più come un osservatore.
Non sono un artista che fa arte politica e dice: “Questo è giusto, questo è sbagliato”. Credo sia importante guardarsi dentro, invece di dire soltanto: “Quel tizio è il cattivo e io sono quello bravo”. Il pensiero dovrebbe essere più complesso di così. Mi piace molto un libro di Joseph Conrad dove parla del costante dilemma morale. Perché nella vita spesso capita che una persona buona faccia qualcosa di cattivo e una persona cattiva qualcosa di buono.

C’è la tua celebre serie di fotografie chiamata Last Meal on Death Row, Texas e ovviamente vorrei chiederti: cosa sceglieresti per il tuo ultimo pasto?
Sigarette e alcool.

Che tipo di alcool?
Brandy, forse. Aiuta a calmarsi.

– Marie Honzíková

https://matcollishaw.com/

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Marie Honzíková

Marie Honzíková

Nata a Praga, laureata all’Accademia Ligustica di Belle Arti. Attualmente vive e lavora tra Italia e Repubblica Ceca, dedicandosi alla ricerca in storia e teoria dell’arte contemporanea.

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