Brasile, una ferita aperta. A Milano
L’ultimo progetto espositivo del PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano offre uno spaccato dell’arte brasiliana. Dagli Anni Sessanta a oggi.
Ha aperto al pubblico lo scorso 4 luglio l’ultima mostra presentata dal PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea, con cui il museo prosegue, attraverso l’esplorazione dei continenti, la propria personale indagine sulla scena artistica contemporanea. L’America Latina è nuovamente al centro di un discorso non solo artistico, ma sociale, culturale, economico, dal peso immenso e dalle ripercussioni globali. Brasile. Il coltello nella carne è il titolo della mostra che significativamente rappresenta il travaglio di una terra “trafitta”, solcata da numerose vicende storiche e politiche intorno alle quali si articola la riflessione degli artisti invitati, trenta in tutto, attivi dagli Anni Settanta a oggi. Sono loro i protagonisti e al tempo stesso i lucidi e disincantati spettatori del cambiamento politico che ha visto il Brasile passare da un regime dittatoriale alla repubblica nell’arco di vent’anni, degli inevitabili conflitti derivati da questa fase non indolore e del divario che ancora separa la stragrande maggioranza di brasiliani dalla piccola élite in cui si concentrano ricchezza, potere e diritti.
STORIE NAZIONALI E INDIVIDUALI
Tuttavia, proprio in Brasile fu scritta una delle pagine più interessanti della vicenda del modernismo, soprattutto tramite l’opera dell’architetto Oscar Niemeyer: comunista ispirato da un profondo desiderio di incidere sul tessuto sociale e politico della nazione, nel progetto per la città di Brasilia pensò a far dialogare edifici e natura, a coniugare il modernismo sulla base delle specificità locali, a organizzare la città in senso ugualitario, senza proprietari e senza zone socialmente depresse. La nuova capitale fa da sfondo alle splendide fotografie di Mauro Restiffe che aprono il percorso dell’esposizione calandoci immediatamente in un clima di entusiasmo che non si ripeterà più fino alla fine della mostra: la serie Empossamento (#3, #7, #2, #4, #8, #9), del 2003, ritrae le celebrazioni in occasione del primo insediamento del presidente Luiz Inàzio Lula da Silva; al contempo le immagini sono percorse dalla sottile inquietudine di chi già intuisce le tensioni a venire: le foto sono infatti in bianco e nero, una scelta formale che colloca il simbolismo delle architetture di Niemeyer e il senso di speranza che anima la folla in una dimensione di “inattualità” storica.
Lontano dal linguaggio e dalla pratica di Restiffe, l’orizzonte narrativo di Leonilson, artista presente nella stessa sala con El desierto (1992), è tutto costruito attorno alla propria tragedia individuale. Scopertosi sieropositivo nel 1990, Leonilson elabora il tema dell’assenza e l’ineluttabilità della sua prossima fine in opere dalla forte componente biografica e dal carattere tattile, sensuale. Pezzi di stoffa presi da abiti da uomo, appartenuti a lui o al suo compagno, sono cuciti grossolanamente, a simboleggiare un’interiorità vacillante, tenuta insieme precariamente da deboli certezze, e un’identità che per definirsi, di fronte al dramma incomprensibile della morte, si appiglia a pochi dati esteriori: il nome, l’età, il peso.
VOCI FEMMINILI
Quella delle donne è una presenza fortissima. Diverse generazioni di artiste dialogano attorno a temi identitari e sociali, connessi a questioni di genere: Iole de Freitas, in mostra con la serie di fotografie Introvert/Penetrate, Extrovert/Penetrate del 1973, e Letícia Parente rappresentano con un linguaggio visuale anche feroce lo status di inferiorità femminile. Parente, in particolare, pioniera della videoarte in Brasile, in Tarefa I, opera datata 1982, si sdraia sull’asse facendosi stirare dalla cameriera, oppure in In del 1975 appende alla gruccia l’abito che ancora ha indosso per poi chiudersi nell’armadio al pari di tutti gli oggetti che contiene. Altrettanto critiche si dichiarano Ana Mazzei e Regina Parra, dalla cui collaborazione nasce Ofélia, lavoro volto a far emergere la posizione di sottomissione del personaggio shakespeariano. Infine A Negra (1997), lavoro di Carmela Gross da cui traspare perfettamente il senso del disagio insito nella condizione delle donne: un grande oggetto fatto di strati sovrapposti di veli è esposto in mezzo alla sala. Impossibile ignorare questo enorme fagotto a cavallo tra il totem religioso e l’oggetto domestico, incerti se avvicinarlo in virtù della morbidezza del tessuto o tenerlo a distanza, per il suo colore.
In Brasile. Il coltello nella carne il discorso artistico si intreccia quasi sempre al discorso politico, secondo modalità più o meno esplicite, ma che riconducono a considerare il conflitto in essere – tra classi sociali, tra passato e presente (propri o di tutta la comunità), tra speranze e disillusioni – il fil rouge della mostra.
‒ Giulia Kimberly Colombo
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