Jaou: il sociale con leggerezza. Intervista con Lina Lazaar
Ha una profonda conoscenza della storia dell’arte del Maghreb e dei Paesi arabi. Per anni ha curato mostre e ha lavorato come specialista da Sotheby’s per le aste di arte moderna e contemporanea mediorientale e nordafricana. Dal 2013 promuove un evento che si chiama Jaou. È Lina Lazaar e l’abbiamo intervistata.
Dopo l’esperienza da Sotheby’s, Lina Lazaar ha maturato la volontà di guardare alla cultura contemporanea con occhi differenti e di dialogare con il pubblico con un linguaggio diretto, attraverso la realizzazione di eventi in cui viene proposta una riflessione sulla realtà, sui suoi modi di vivere e viverla, in un contesto che è sempre quello urbano. Lo strumento per fare tutto questo si chiama Jaou e l’ottava edizione si è appena conclusa a Tunisi.
Cos’è Jaou e come è nato?
Jaou è una carovana culturale, nata a seguito di una riflessione riguardo le diverse attività della Fondazione Kamel Lazaar [di cui Lina è vicepresidente, N.d.R.], da anni impegnata a sostegno dell’arte, del lavoro degli artisti, sia con il supporto dei loro progetti che con l’acquisto delle loro opere per la collezione. Con il portale Ibraaz, la Fondazione offre un apporto critico e di saggistica per l’arte moderna e contemporanea. Quello che mancava era qualcosa che ci avvicinasse, anche fisicamente, alla gente. La traslazione di questa riflessione è diventata una domanda, ovvero “Come vivere insieme?”, e questo rispetto a un determinato contesto culturale, e soprattutto come condividerlo.
Cosa significa ‘jaou’?
Nella lingua araba tunisina, significa ‘divertimento’. C’è anche un altro significato in lingua araba, per cui con ‘jaou’ si intende ‘leggero’, ‘piacevole’.
La prima edizione fu a Jeddah, in Arabia Saudita. Era il 2013.
Allora il tema conduttore fu sottolineare i gap sociali, le divisioni che esistono tra le persone nella società del mondo arabo, quelle tra l’uomo e la donna, tra le classi sociali. Ma le divisioni esistono anche tra i diversi Paesi del mondo arabo: i sauditi, ad esempio, sono una sorta di mondo a parte. Siamo partiti dalla realtà di tutti i giorni, da quello che abbiamo intorno e che quasi non vediamo, ma che usiamo. Abbiamo organizzato una mostra fotografica dedicata ai migranti filippini che si trovano in gran numero in molte case dell’Arabia Saudita. La mostra ebbe un grande successo, molta gente è venuta a vederla, di tutte le età, ragazzi e ragazze insieme. Non era così evidente a priori. Abbiamo fatto altre due edizioni di Jaou a Jeddah.
Le migrazioni sono un tema sul quale rifletti spesso. Lo hai fatto, nel contesto di Jaou, nel 2015 con la mostra All the world is a Mosque, dove le opere d’arte erano esposte nei container che vengono usati per trasportare le merci in tutto il mondo, e poi con The Absence of Paths alla Biennale di Venezia, in occasione della prima partecipazione della Tunisia alla Biennale dal 1958. Realizzare quest’ultimo progetto non è stato facile, soprattutto dal punto di vista burocratico: hai dovuto chiedere i permessi al governo tunisino e i visti in Italia per i giovani che hanno gestito i chioschi. Se avessi portato delle opere d’arte sarebbe stato più semplice, no?
Certo, sarebbe stato più semplice. Avevo già organizzato diverse mostre nel contesto della Biennale di Venezia, ma The Absence of Paths è stata un’altra cosa…
Veniamo all’edizione 2018 di Jaou: i temi sono stati il patrimonio e l’identità.
La rivoluzione del 2011 [la rivoluzione del Gelsomini iniziata a Tunisi nel dicembre del 2010 e protrattasi fino ai primi mesi del 2011, che aprì la strada a una serie di rivolte sociali in diversi Paesi arabi, tra cui l’Egitto e la Siria, N.d.R.] aveva dato molte speranze alla gente, la si leggeva sui loro volti. Nel tempo le speranze maturate in seno alla rivoluzione sono apparse sempre più effimere. Così, con il team di Jaou, abbiamo iniziato a farci delle domande. Tante. Alla fine la scelta è stata quella di parlare di identità a partire dal patrimonio storico della città, in diversi casi in uno stato di dissesto. Gli edifici scelti per ospitare le mostre appartengono a periodi e stili diversi. Sono quasi dimenticati dal pubblico, anche per via del cambio di destinazione che hanno subito nel tempo, ma narrano una parte della storia di Tunisi, sono identitari della sua storia. A questi padiglioni, come tema delle esposizioni, abbiamo associato gli elementi naturali: acqua, terra, fuoco, aria.
Perché gli elementi naturali?
Una volta scelto il tema principale, il paradigma andava declinato, quindi bisognava trovare i contenuti per le mostre che questi edifici avrebbero ospitato e…
Altre complicazioni?
Sì. Tutto è talmente complicato: la situazione politica, quella sociale… Allora ci siamo detti: “Partiamo dalle origini, dagli elementi naturali”.
Il risultato?
Il padiglione dell’Acqua era ospitato all’interno una chiesa sconsacrata, l’Eglise de l’Aouina, da anni riconvertita in sala per attività sportive. Appartiene al Ministero degli Interni e viene usata per gli allenamenti di boxe, una pratica che oggi coinvolge anche le donne. La mostra riguarda la capacità di adattamento dell’acqua. Per il Padiglione del Fuoco abbiamo scelto un edificio moderno, l’Imprimerie Cérès, costruito nel 1971 dall’editore Mohamed Ben Smail. Il Padiglione della Terra aveva sede in un mausoleo, un edificio storico in stile moresco, la Zaouia di Sidi Boukhrissane. Infine, il Padiglione dell’Aria si trovava a Dar Baccouche, costruito nella seconda metà dell’Ottocento per volontà dell’uomo d’affari e militare Mohammed Baccouche. Le mostre hanno coinvolto oltre quaranta artisti e sono state organizzate da quattro curatrici donne.
I temi sui quali vi confrontate con Jaou sono quelli della nostra società. Nei dibattiti avete proposto una riflessione sul tema “Come sensibilizzare il pubblico riguardo l’importanza della cultura nell’approccio dei problemi che incontrano le nostre società?”. Con queste iniziative riuscite ad arrivare alle persone alle quali volete realmente parlare ?
Provo a risponderti con un esempio. Quando abbiamo installato il chiosco sul ponte prima dell’ingresso dei Giardini alla Biennale di Venezia, per The Absence of Paths, la gente si fermava incuriosita per vedere di cosa si trattava e veniva spiegato loro il perché del chiosco. Poi veniva consegnato un piccolo questionario, con domande riguardo la propria identità, la propria provenienza. Erano domande semplici, ma che ti restano dentro. Le risposte sono state tante, alcune emozionanti, a volte personali. Qualcuno ha risposto: “Appartengo al cuore dei miei figli”. Non so se ho risposto alla tua domanda, ma con The Absence of Paths volevamo spingere le persone, noi stessi, a farci delle domande, ad andare oltre la notizia, oltre il luogo comune. Forse ci siamo riusciti.
– Riccarda Mandrini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #44
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