Lezioni di critica #7. Come si giudica un’icona
La settima “lezione di critica” di Roberto Ago si inserisce nella querelle attorno al manifesto realizzato da Marina Abramović per la Barcolana triestina. Dando vita a ulteriori considerazioni.
L’occasione è troppo ghiotta, per non essere intercettata da una “iconologia” in senso lato che si proponga di illustrare, attraverso un caso emblematico e altamente mediatico, una regola generale per la corretta interpretazione di icone particolarmente refrattarie a un’interpretazione univoca, tanto più se venate di istanze politiche. Proprio da Capalbio, cattedra invisa (o invidiata?) ad alcuni colleghi, dedico un’imprevista lezione estiva a Marina Abramović e alle polemiche suscitate dal suo manifesto.
Cooptata dalla storica regata triestina Barcolana al fine di pubblicizzarne la prossima edizione, attraverso un’inconfondibile retorica “pseudo-compensativa” l’artista si è letteralmente data in pasto agli interpreti. Una mossa calcolata, naturalmente, rispetto alla quale i pareri divergono, proliferando. Tanto che la sua operazione rappresenta un’occorrenza empirica di prim’ordine per illustrare la bontà di uno strumento prassico-teorico formulato da Umberto Eco ne I limiti dell’interpretazione (Bompiani, 1990). Semplificando assai, il semiologo sottolinea la necessità di distinguere, dato un testo altamente polisemico non necessariamente estetico, tra una intentio auctoris, una intentio operis e una intentio lectoris variamente influenti, attraverso le quali negoziare un distillato interpretativo che si candidi a rispecchiare in modo affidabile il significato più autentico dell’occorrenza in oggetto, significato non sempre in sintonia con le credenze del lettore né, addirittura, del suo stesso autore. Sorvolando qui sulla difficoltà di distinguere tra opera “in sé” e fuoco prospettico dell’interprete, rispetto alla quale rimando al volume suddetto, possiamo nondimeno concedere che tale negoziazione sia praticabile e utile al nostro caso specifico, perché il rischio di far dire al testo verbo-visivo di Abramović ciò che in nessun modo afferma non è solo in agguato, ma è già uscito allo scoperto.
UNO SLOGAN STRUMENTALE O INGENUO?
“We’re all in the same boat” è il candido slogan impugnato attraverso una grafica al contrario “sinistra”, per un messaggio universalistico evidentemente non gradito a quanti non vorrebbero a bordo chi dei nostri non è; ma anche non correttamente inteso da chi si schiera con Abramović senza scorgere nel suo appello alcunché di problematico. La quaestio innescata dal nostro prezioso sinolo di teoria e laboratorio vede in causa, da una parte, un’amministrazione leghista che necessariamente reputa tale messaggio fuori luogo, date le politiche sull’immigrazione dell’attuale esecutivo; e, dall’altra, l’immancabile controcanto di chi tali politiche non condivide, non necessariamente perché di sinistra. Sicuri che l’icona di Abramović con la politica non c’entri?
Come opportunamente rileva Vittorio Sgarbi, intervenuto nel torneo esegetico ospitato da Artribune, in una democrazia censurare un artista, e con lui la libertà d’espressione, è un boomerang che fatalmente ti si ritorce contro, oltre che un esecrabile fallo etico. Una lezione che la Lega e le destre in genere dovrebbero apprendere se non altro per il proprio tornaconto. La Realpolitik passa anche per la tolleranza. Inoltre, se si vuole sdoganare l’idea nient’affatto peregrina che il traffico di esseri umani vada regolamentato, il primo passo dovrebbe essere quello di quantomeno dissimulare il proprio razzismo, altrimenti nessun moderato ti prenderà sul serio (posto che ciò non faccia esattamente il tuo gioco). Ben più grave e meritevole di censura del manifesto della Barcolana, contro cui si è scagliato il vicesindaco leghista, è l’erculea espressione “ripulire” da lui utilizzata in merito alle “stalle” del Mediterraneo. Ci si chiede se non sia il caso di un intervento “olimpico”, nemmeno per rammentare al vicesindaco le buone maniere, ma per suggerirgli che in un’epoca ancora abbastanza democratica la clava anche lessicale rischia di metterlo in castigo.
Senonché la colta arringa ecumenica di Sgarbi, interessata com’è a salvaguardare la libertà d’espressione in particolare di messaggi universalistici altamente condivisibili, dimentica una quota importante del campo semantico che interessa un’icona quanto mai ambigua: quella relativa a chi, sulle barche a vela della Barcolana, purtroppo non sta, né tantomeno era a bordo di uno dei fulgidi gommoni di Ai Weiwei appesi su Palazzo Strozzi (un’opera anch’essa altamente ambigua anche se meno sfrontata del manifesto di Abramović). Ma sta, invece, abbarbicato su bagnarole che non si sa se arriveranno in porto. Se non Abramović, certamente gli organizzatori della Barcolana avrebbero dovuto dimostrarsi consapevoli delle connotazioni politiche e cronachistiche che il suo manifesto indubitabilmente veicola (intentio operis). Se lo erano, il suo slogan è strumentale, altrimenti non può che apparire come ingenuo e inopportuno, perché in una regata stride al tal punto con i naufraghi pure evocati da risultare di cattivo gusto. Qualora invece si voglia considerare il monito di Abramović allusivo non tanto dei profughi, quanto degli attuali governanti, ugualmente non ne uscirebbe lindo perché c’è ancora e sempre chi manca dalla scena.
EVOCARE IN ABSENTIA
Fuorviante replicare che il messaggio di Abramović sia solidale con ogni “navigante” del Pianeta Azzurro, perché una tale lettura contraddice l’intentio operis. Occorre infatti riconoscere, con Luca Beatrice, che tutti sulla stessa barca non siamo affatto, a meno di intendere, come suggerisce Sgarbi, l’esistenza come un natante, che però apparirebbe anch’esso diseguale e troppo immanente per non riportarci alle cronache. Anche attribuendo a “stessa” il significato di “uguale nella differenza”, come Abramović e gli organizzatori hanno dichiarato d’intendere, non si esce dall’impasse interpretativo, perché non si capisce (o sì?) l’opportunità di celebrare un’ecumene tanto vaga e universale da rovesciarsi continuamente nella dicotomia di inclusi ed esclusi.
Si sarebbe dovuto tenere in conto, in poche parole, chi non può apprezzare l’icona perché sta a mollo nell’acqua senza “cazzare le rande”, ma al limite incazzandosi. Fossimo al suo posto, ci sentiremmo presi in giro, non di boa evidentemente. Come se non bastasse, a illudersi e illudere di essere tutti sulla stessa barca è un’artista che, pur muovendo da un’esistenza burrascosa, in porto c’è arrivata, per giunta in occasione di una regata dimentica non tanto di mali che non fanno notizia, ma esattamente di quelli che la fanno. L’inopportuno slogan di Abramović li evoca in absentia, ricordando molto da vicino l’ingenua malignità di Maria Antonietta con le brioche. Il meno che si possa dire è che il suo enunciato gnomico è talmente apofantico da sabotarsi in gaffe, una disattenzione che Aldo Premoli sottoscrive. Intervenuto prima di Sgarbi nella querelle corroborata dall’intervento a gamba tesa di Luca Beatrice, dovrebbe rileggere con più attenzione l’editoriale di quest’ultimo, il quale, pur usando toni eccessivi, rileva correttamente come l’iniziativa di Abramović non possa che apparire ipocrita e offensiva, per una intentio lectoris che indubbiamente calza con l’intentio operis.
C’è un unico modo per far dire il vero all’icona d’antan di Abramović, riscattando al contempo le nostre false coscienze di spettatori: consentire a dei profughi di approdare nel porto di Trieste durante la regata, e così restituire il ritratto di un’umanità realmente sulla stessa barca. Altrimenti sarebbe stato meglio stare zitti e ideare un altro slogan. Ora che il passo falso è stato compiuto, occorrerebbe passare dalle parole ai fatti per scalzare i sospetti, legittimamente avanzati da Beatrice, di una intentio auctoris opaca e strumentale. Disinnescando, anche, la verità di un manifesto derridianamente in/sincero (intentio operis) e il torpore interpretativo del pubblico (intentio lectoris). Fino a quel momento, “The Cup must go on” resta il significato più autentico di un manifesto che occulta dietro un mistificante “We’re in the same boat” il fastidioso inconveniente di naviganti che scuffiano senza veleggiare, ma grazie a Dio lontano da Trieste.
UNA GAFFE NON PERCEPITA
L’assoluzione della nostra icona passa dunque necessariamente per una integrazione del campo semantico che sia tutt’uno con quella reale dei naufraghi. Fattibile? Nient’affatto. Ammessa e non concessa la volontà da parte degli organizzatori di affiancare alla regata uno sbarco di profughi, “Satana” impedirebbe qualsivoglia incarnazione del verbo “abramovitico”, con l’inconfessabile assenso non della Abramović, a cui non parrebbe vero di ottenere tanto, ma certamente di tutti gli altri. Se, qui a Capalbio, alla prova dei fatti più di un benpensante è venuto allo scoperto in merito a un’immigrazione non più platonica, Trieste non sarebbe certo da meno. Non ci resta che digerire una gaffe che in fondo non avvertiamo perché chi potrebbe rinfacciarcela non ne sa nulla, a mostre e regate non partecipa perché ha ben altro a cui pensare.
‒ Roberto Ago
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