50 anni di Studio Cannaviello celebrati con una mostra antologica. L’intervista a Enzo Cannaviello
Milano, innanzitutto. Poi gli artisti, i progetti, la storia dell’arte e quella con la S maiuscola, dal 1968 ad oggi. Enzo Cannaviello racconta 50 anni di galleria, con qualche tirata al mercato e riflessioni in libertà.
Ha aperto la galleria nel 1968, un anno nevralgico per il mondo intero. Così, mentre in Italia si “faceva” la lotta politica lei pensava all’arte…Com’è nata l’esigenza di intraprendere questo percorso?
Per lo stesso fatto che si apriva una galleria d’arte a Caserta, in “terra di lavoro” (così è chiamata quella provincia) e non in una metropoli, era un’adesione alla mentalità sessantottina. Certo che poi non era possibile continuare. Dopo qualche anno dalla mia prima mostra dovetti trasferirmi a Roma perché per la galleria non conta solo il discorso economico, c’è anche quello culturale che purtroppo non può essere svolto in una piccola città di provincia malgrado le teorie del ‘68. Inoltre, anche il nome “Studio”, anziché galleria, dava l’idea di un’eliminazione del mercato.
Nel corso della sua carriera ha lavorato in diverse città, partendo da Caserta nel 1968, giungendo poi nel 1971 a Roma fino ad approdare a Milano nel 1977, la città dove poi ha deciso di fermarsi cambiando anche qui più sedi. Cosa ha trovato nel Capoluogo lombardo che altre città non le hanno saputo dare?
Milano è la vera capitale dell’arte contemporanea in Italia per cui non avrei potuto scegliere altra città per espandere il mio lavoro. D’altronde in questa città mi trovo perfettamente a mio agio. Pensi che il giorno dell’inaugurazione (con Urs Lüthi) ero preoccupato non venisse nessuno, giacché non conoscevo nessuno nella città; invece si presentò una folla di appassionati d’arte che non ho idea di come avesse avuto l’informazione della mia nuova apertura. Quel giorno stesso decisi che Milano sarebbe stata la mia città definitiva. Ho cambiato, però, varie sedi sempre per crescere. Milano è l’unico luogo in cui una persona timida come me può trovare un pubblico e un collezionismo informato che viene spontaneamente in galleria, al pari di altre grandi città europee.
Come è cambiato il mestiere di gallerista dagli anni del suo debutto ai giorni nostri? Negli ultimi anni – si dice – il lavoro di galleria sta subendo una forte crisi. Come crede che evolverà nel futuro per rispondere ai contraccolpi di questo processo?
La crisi è innegabile. Secondo me è attribuibile per la maggior parte alla proliferazione delle fiere che hanno abituato il pubblico a trattare l’opera come una merce esclusivamente economica. Quando si elimina dal sistema dell’arte l’aspetto culturale, tutto crolla. Lo stesso discorso, ancor di più, vale anche per le case d’asta che anch’esse negli ultimi anni si sono moltiplicate. Insomma, la galleria non è più il luogo dove innanzitutto ci si informava e poi, eventualmente, si acquistava. Oggi si vuol fare “l’affare” e si considera meno il valore intellettuale. Ovviamente non sento di appartenere a questa mentalità ma purtroppo è così. Credo che la funzione delle gallerie sia comunque insostituibile, senza di esse non avremmo il rinnovamento del sistema dell’arte.
Quindi il rapporto con le fiere non è dei migliori..
Conseguentemente al discorso fatto prima, ne penso molto male tanto che non vi partecipo da anni. Senza parlare di quelle che nascono ogni anno in tutta Italia. Penso che ormai ogni piccola città ne abbia una e la qualità non può ovviamente che scadere. L’unica possibilità sarebbe quella di farne solo qualcuna tematica e selettiva. Un tentativo fu fatto da Giancarlo Politi nel 2013 a Milano. In quell’occasione i galleristi potevano scegliere se esporre una personale o una collettiva a tema. L’attenzione era così rivolta all’opera e non all’aspetto mercantile. Dubito, però, che ci sarà un’evoluzione in quel senso e comunque, anche se ci fosse, rimarrebbero i loro difetti strutturali. Le opere soffrirebbero sempre degli spazi angusti, del caos, della mancanza di un progetto, dell’eccesiva illuminazione e del “troppo”. Insomma, mancherebbe l’atmosfera delle gallerie d’arte.
Lei ha sempre lavorato molto con la pittura e ha creduto in tanti giovani pittori. C’è stato un periodo però in cui questa pratica artistica è stata fortemente demonizzata. Negli ultimi anni invece si è assistito a un ritorno alla pittura…Cosa pensa di queste “schizofrenie” del mondo dell’arte?
Come li ha giustamente definiti lei sono questi processi inevitabili, ma il tempo fa sempre giustizia. E comunque, malgrado queste considerazioni, nel periodo in cui la pittura non era in auge gli artisti più venduti e i più costosi sono stati sempre pittori (David Hockney, Gerard Richter, Peter Doig ecc…). Ciò significa che il mezzo tradizionale non è sostituibile. Si può e si deve ovviamente sperimentare e guai se l’arte non lo facesse. È un linguaggio che non si può esaurire: sarebbe come dire di voler eliminare dalla letteratura la scrittura.
Chi sono stati i suoi compagni di strada in questi 50 anni? Con quali artisti si è sentito maggiormente in sintonia?
Innanzitutto il gallerista Lucio Amelio, che fu un po’ il mio mentore. Achille Bonito Oliva il quale, insieme a Filiberto Menna, mi seguì nei primi anni a Caserta e poi a Roma. A Milano invece devo sicuramente citare Giovanni Testori. L’elenco sarebbe abbastanza lungo e si rischierebbe di dimenticarne qualcuno. Lo stesso vale per gli artisti ma non posso non ricordare Fabio Mauri con il quale, a Roma, avevo stretto un forte legame di amicizia e fui addirittura il suo unico “supporter” in quella città. Ma anche con Paladino c’è sempre stato un rapporto di amicizia che dura tutt’oggi. Dovrei parlare anche di Martin Disler, di Urs Lüthi, di Rainer Fetting, di Bernd Zimmer, di Siegfried Anzinger, di Vincenzo Agnetti ma il discorso diventerebbe molto lungo…
In una intervista a firma di Francesco Sala, pubblicata su Artribune nel 2015 aveva raccontato un nuovo progetto: una sorta di modello “franchising”, con una serie di piccole realtà consociate che proponevano gli artisti della galleria. Che risposte ha avuto da questo progetto?
Della rete di gallerie create esiste ancora quella di Cremona (Interno 18) ma devo dire che purtroppo in provincia è difficile esprimersi compiutamente: si tratta di realtà nelle quali non è facile far conoscere l’arte contemporanea. E poi devo anche ammettere che questo lavoro è legato alla persona e che quindi è difficile sostituirti. Nonostante ciò, è un progetto in cui credo ancora e può darsi che sia il futuro.
Il 27 settembre inaugura una mostra che è un po’ un sunto di tutta la sua carriera…
Cosa può fare un gallerista se non rappresentare tutti gli artisti che ha esposto? Ovviamente con formati e tecniche minori, per motivi di spazio, ma che diano un quadro della storia della galleria. Fare una mostra con poche opere scelte sarebbe stata più bella ma non rappresentativa di tutti i 50 anni di lavoro. Sarebbe stato opportuno esporre anche documenti, lettere, fotografie ma non c’è lo spazio per farlo. Sarà una mostra quasi museale in quanto saranno esposti più di 70 artisti (chiaramente con opere di piccolo formato).
Se la sente di tirare un bilancio di questi 50 anni? Se oggi avesse 20 anni aprirebbe di nuovo una galleria?
Il bilancio è certamente positivo ma avrei fatto molto di più se non fosse stato per alcune circostanze. Comunque se avessi oggi 20 anni rifarei tutto da capo perché non so fare altro.
-Santa Nastro
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