Fotografare l’Uganda. Intervista a Monica Carocci e Olga Gambari
Parola all’artista e alla curatrice che hanno dato vita al progetto espositivo incentrato sulla residenza di Monica Carocci in Uganda, nell’ambito delle attività umanitarie di Cute Project. Una raccolta di scatti, presto in mostra alla galleria Alberto Peola di Torino e alla galleria Francesca Antonini di Roma.
È una storia a più voci quella narrata da Monica Carocci (Roma, 1966) e Olga Gambari, rispettivamente artista e curatrice della rassegna Uganda ‒ Ma dove lo trovate il tempo?, a breve ospite della galleria torinese di Alberto Peola e di quella capitolina targata Francesca Antonini. Le opere in mostra ‒ scatti in bianco e nero stampati su carta baritata ‒ sono il frutto della residenza compiuta dalla fotografa in Uganda nel 2017, al fianco di Cute Project ‒ associazione di medici volontari impegnata nella formazione teorica e pratica del personale sanitario addetto alla chirurgia plastica ricostruttiva in Paesi come Uganda, Congo, Benin.
Ogni anno Cute Project invita un fotografo a documentare “sul campo” il proprio operato, restituendolo attraverso l’obiettivo. Stavolta la scelta è ricaduta su Monica Carocci, profondamente legata al linguaggio digitale e autrice di scatti dalla forte valenza artistica. I risultati della residenza in Uganda confluiscono ora in una doppia mostra e in un libro, edito da Postmedia Books, venduto, al pari delle opere, a un prezzo simbolico per supportare le future attività di Cute Project.
MONICA CAROCCI
Che cosa ha significato per te, come artista e come essere umano, prendere parte a questo progetto “sul campo”? Che cosa hai voluto restituire attraverso i tuoi scatti?
È una domanda che mi sono posta per tutta la durata della residenza, quali fossero il mio spazio e il mio valore aggiunto all’interno di un progetto dove, a parte me, tutti gli altri salvavano le persone senza risparmiarsi. Ho raccontato. Il progetto “sfatiamo i falsi miti” consisteva nel rispondere alle domande che utenti dei social ponevano su costumi, abitudini e quotidianità. Il dover documentare con video e foto le risposte mi ha permesso di conoscere nei particolari la realtà dell’ospedale, della missione e quindi di potermi muovere in modo silenzioso. Ho riportato ciò che ho visto.
Il tuo approccio alla fotografia è delicato e complesso: stampi su carta baritata, privilegiando la dimensione analogica e spesso nelle tue opere si ravvisano richiami a pratiche visive multiple (dalla pittura all’installazione). Come hai tradotto tutto ciò nel lavoro per Cute Project?
L’ho tradotto portandomi in Uganda la changing bag e sviluppando i primi rullini su un terrazzo. È stato molto bello. Il lavoro completo raccoglie 66 fotografie in bianco nero stampate su carta baritata. Le foto sono divise in due dimensioni di 34 x 22 cm e 18 x 24 cm circa. Sono vendute a un prezzo simbolico e quanto ricavato andrà tutto alla missione Cute Project. Abbiamo realizzato anche un libro che documenta il lavoro fatto intitolato Uganda… ma dove lo trovate il tempo?.
Che valore assume, secondo te, oggi, l’espressione “sfatiamo i falsi miti”?
Che la verità va ricercata. Per noi è stato, anche, far comunicare due realtà distanti. Ogni volta che la missione si muove porta con sé conoscenza, innovazione e diventa un ponte che permette di costruire ogni anno un pezzo in più.
Credi che l’arte possa avere una qualche efficacia nel ribadire i valori umani universali in un mondo attraversato da rigurgiti xenofobi e razzisti?
Certo che sì, l’arte è il cibo dello spirito: si muove nel tempo e nello spazio, comunica attraverso un canale che non è quello che utilizziamo solitamente ma che è percepibile da tutti. L’arte risveglia sensazioni, consapevolezze, emozioni proprie dell’essere umano nel senso completo del termine.
OLGA GAMBARI
Raccontaci origini ed evoluzioni del tuo incontro con Cute Project e Monica Carocci. Qual è stato il tuo apporto all’iniziativa?
Conoscevo sia il progetto di Cute sia naturalmente il lavoro di Monica Carocci. Quando le loro strade si sono incontrate ho avuto il piacere e l’onore di fare parte di questo viaggio che è diventato un’esperienza artistica e umana. Lo spirito del progetto è la condivisione e la visione dell’arte come una casa comune e quindi ciascuno è presente sia con i suoi ruoli professionali sia dando un supporto generale. Questo lo rende anche speciale.
Il progetto di Monica, nato nell’ambito della residenza in Uganda, si è tradotto in un volume e in due mostre. Che cosa volete trasmettere di questa esperienza al pubblico?
Le opere di Monica sono un medium eccezionale per trasmettere e condividere luoghi, persone, emozioni, valori, fatti. È tutto condensato in quello che lei ha visto e fissato. Qualcosa che esula da un piano didascalico e nozionistico, ma che si colloca in una dimensione di empatia e simbolo immediatamente in contatto con il pubblico, e sempre personale. Cosa dire di quei luoghi africani, di quegli spazi dove ha preso casa il campo, di quell’umanità fatta di medici, volontari, pazienti e loro famigliari, che non sia già contenuto nelle immagini di Monica? È un lungo, profondo, sfaccettato racconto fatto di foto in foto, quello che c’è dentro e tutto quello che non c’è ma che per emanazione non viene escluso bensì evocato.
Le immagini di Monica hanno un’aura che scaturisce sempre dal suo contatto unico con la realtà. Comprende e “vede” il visibile e l’invisibile. Trasforma ogni oggetto in soggetto e ce ne presenta la sua manifestazione.
Credi che l’arte possa avere una qualche efficacia nel ribadire i valori umani universali in un mondo attraversato da rigurgiti xenofobi e razzisti?
Viviamo in un’epoca dove immagini e parole sono state svuotate di senso, sostituite da slogan e flash visivi a effetto. L’arte vive in un’altra dimensione, estranea a codici, un luogo per sua natura universale, nel profondo estranea a generi e categorie. Al di là di espressioni d’arte che cercano la chiave sociale o documentaristica, l’arte risulta sempre e comunque strumento collettivo, linguaggio comune dove tutti si possono ritrovare, farne parte. E può essere di volta in volta suggestione, sovversione, emozione, spiazzamento, illuminazione. Per esempio, il lavoro in questione di Monica. Uomini, natura e ambiente appaiono un unico impasto vitale, dove una parte non può essere ritagliata dall’altra, il chiaro e lo scuro si bilanciano, il tempo si sospende e il loro valore si eleva a universale. Il senso prende corpo dall’armonia, dall’energia che lega i composti di questa chimica.
‒ Arianna Testino
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati