Le porte d’oro di Giovanni De Gara. Un’installazione sui migranti per la Chiesa Valdese di Palermo
Fa tappa a Palermo l'istallazione realizzata con coperte isotermiche dell'artista fiorentino Giovanni De Gara. Si parla di migranti, ancora una volta, ma con un riferimento alla dimensione del sacro e alle architetture religiose. Non solo chiese cattoliche, però. La comunità valdese di Palermo, attivissima sul piano del sociale e della cultura, ospita così un'opera d'arte contemporanea. Per continuare a portare avanti le sue battaglie.
Leggenda vuole che un re di origine armena, di passaggio a Firenze nel 250 d.c., si rifiutò di venerare gli dei pagani, scegliendo di vivere da eremita. Erano gli anni delle persecuzioni cristiane e Miniato, che in sé riuniva lo status del profugo, dell’eretico, del ribelle, venne condannato a subire atroci torture: a tagliargli la testa fu il Re Decio in persona. Primo martire della città, beatificato a seguito di alcuni miracoli attribuitigli, fu omaggiato intorno al 1013 con la costruzione della Basilica di San Miniato al Monte, gioiello del romanico fiorentino, le cui splendide tarsie marmoree vivificano le geometrie luminose di taglio classico.
È in questa architettura sacra, quasi una “porta celeste” incastonata su una collina, che l’artista Giovanni De Gara (Firenze, 1977) ha inaugurato a giugno 2018 il suo progetto “Eldorato”, modulato sui tre portoni della facciata. Rivestite con le tipiche coperte termiche utilizzate per il primo soccorso dei migranti, le aperture risplendevano al sole, richiamando da un lato il significato mistico, alchemico e spirituale dell’oro, dall’altro il tema dell’accoglienza, della solidarietà, della diversità come valore culturale e politico. L’immagine vive così sul piano aureo di un firmamento ideale, che è anche il tepore dell’approdo, il miraggio della terra vista dal mare, la quiete dopo la tempesta su una sgarrupata imbarcazione.
VIAGGIO IN SICILIA. L’ARRIVO ALLA CHIESA VALDESE DI PALERMO
Poi venne la tappa della parrocchia Santa Maria Assunta di Pistoia e ancora, lo scorso 3 ottobre – Giornata mondiale della memoria e dell’accoglienza – quella di Lampedusa presso la chiesa di San Gerlando e il santuario della Madonna di Porto Salvo. Oggi “Eldorato” è arrivato a Palermo. Evocando ancora la condizione dolorosa di tutti i profughi della storia: l’oro degli ultimi, di chi sta ai margini. In contrasto con la sfarzosità del potere (anche ecclesiastico) e in relazione alla lezione rivoluzionaria di Cristo.
Stavolta protagonista è la Chiesa Valdese di Via dello Spezio, una pregevole architettura in stile neogotico, realizzata tra il 1925 e il 1927 su progetto di Emilio Decker e intitolata alla severità iconoclasta, alla semplicità e al rigore. Qui (oltre che al Centro Diaconale “La Noce”) la comunità protestante palermitana svolge le sue attività di culto, insieme a una fitta programmazione di appuntamenti culturali, con un esprit notoriamente progressista e con un forte radicamento nel territorio: dallo studio dei testi biblici all’organizzazione di incontri su temi d’attualità, dai cineforum d’essai alle presentazioni editoriali, dalle cene multietniche all’impegno nel campo dei diritti umani e civili, dal lavoro per l’integrazione dei migranti, fino al dibattito sui nuovi orizzonti della bioetica.
Scelta azzeccata, quella di De Gara. Non è un caso che la Chiesa Valdese sia tra gli ideatori – insieme alla Comunità di Sant’Egidio – del progetto “Corridoi Umanitari”. Un modello virtuoso di gestione e accoglienza dei flussi migratori, elogiato universalmente, ma mai messo a regime su ampia scala. Risolvere nel senso della razionalità, della legalità, della protezione e della redistribuzione equa, resta forse più problematico da un punto di vista politico (o meglio “propagandistico”) che non strettamente tecnico.
ARTISTI E IMMIGRAZIONE. TRA CLICHÈ E MILITANZA
Fino al prossimo 17 ottobre il portale ligneo della chiesa palermitana dialogherà con la città e con lo sguardo dei passanti, grazie anche a questo elemento radioso, che si colloca tra il discorso etico e il gesto estetico. E che indovina lo spunto religioso-architettonico della ‘soglia’. Non una straordinaria prova di originalità, ma un’intuizione comunque ben risolta – con tutti i rischi e le retoriche del caso – sul piano dell’architettura, dei segni urbani, dell’emotività collettiva.
E certo è che questi oggetti poveri, funzionali, col loro portato di memorie anche luttuose, tornano a farsi testimonianza di un dibattito dilaniante, con l’Europa degli Orban, dei Salvini e del gruppo Visegrad, ma anche dei Sánchez e degli Asselborn, impegnata a fronteggiare un fenomeno inarrestabile, antropologicamente vecchio quanto l’uomo: qualcuno appellandosi alla coscienza, qualcun altro sventolando le bandiere del conflitto e della paura.
Gli artisti, dal canto loro, non smettono di inaugurare riflessioni critiche, di costruire ponti, di offrire significati e significanti possibili tra lo spazio pubblico, i teatri, i musei. Temi e spunti ormai usati e abusati (di teli isotermici nelle installazioni ne abbiamo viste a bizzeffe, come nel caso dei giubbotti arancioni di salvataggio, dei barconi arenati, degli effetti personali pescati tra i porti e i fondali…), spesso scivolando nella decorazione, nella banalizzazione, della retorica estetizzante o nella scaltrezza mediatica.
E però, tra ripetizioni stanche, soluzioni più o meno compiute e vere illuminazioni, si mantiene aperta la questione: quanto e come un artista può e deve misurarsi con certi grandi temi del presente? Poche le grandi opere, complesse e autentiche, capaci di condurre nel cuore del reale e di dischiudere meditazioni alte. E difficile resta la strada dell’attualità più feroce. Che assume il peso della storia e che incontra la sfida della forma, della memoria viva, della densità iconografica e concettuale. Ma soprattutto della responsabilità culturale e qualche volta – legittimamente – della militanza.
– Helga Marsala
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