L’arte contemporanea come pratica della memoria. Dalla fotografia alla Street Art
Una ricognizione sul legame tra fotografia, tempo e memoria. Attraverso le opere di cinque artisti contemporanei.
Ogni luogo ha la sua storia, ogni spazio, con le proprie architetture, richiama alla mente memorie personali, vite passate che un tempo vi dimoravano. La fotografia, nella sua potenza evocativa, è una testimonianza inderogabile di queste esistenze che un tempo furono il presente, nei propri drammi, nelle proprie complessità e nelle proprie illusioni. Un tempo che non ritorna, ma che è possibile rivivere attraverso i fotogrammi, per scrutare e ispezionare attimi di biografie che, se pur anonime, raccontano di un’urgenza del momento.
È il caso dei fotogrammi in bianco e nero di Marialba Russo (Napoli, 1947), che tra il 1968 e il 1980 ha documentato la cultura del Mezzogiorno, coincisa fatalmente con il terremoto dell’Irpinia tra le province di Avellino e Salerno, fino a comprendere i territori di Potenza e di Matera. Se da un lato queste fotografie documentano i riti del mondo agricolo e pastorale, ancora lontano in quegli anni dallo sviluppo socio-economico, dall’altro verso esprimono un avvicinamento a un tempo statico, quasi cristallizzato nell’epoca e negli usi omerici, in cui la ciclicità calendariale è caratterizzata dalla presenza immobile dei santi protettori del luogo. Oggi, nell’epoca della cultura multimediale, appaiono lontani questi pellegrinaggi antichi, in cui si mostrano i contadini intenti a camminare nel sentiero candido e tortuoso che conduce ai santuari arroccati e isolati, tra le antiche terre di Puglia, Lucania e Campania. Alcuni di questi braccianti sono sorpresi nel momento della preghiera, nel vegliare, nel dormire e nel sorridere, in un istante specifico che il tempo non restituisce se non solamente attraverso l’uso testimoniativo e antropologico della fotografia. Una iconografia del dolore che assume forme e aspetti autoctoni, generata da tradizioni storiche, trasmigrazioni complesse in una natura che, nella sua potenza distruttrice, irrompe sulla cultura.
DIANE ARBUS E NAN GOLDIN
La fotografia intesa come ricordo-testimonianza assume toni angoscianti tratti da eventi autobiografici nella produzione di Diane Arbus (New York, 1923-1971) e Nan Goldin (Washington, 1953), che fotografano le diversità, i derelitti, i malati di AIDS, ponendo così una lente di ingrandimento sulla tragicità dell’esistenza umana. In una fotografia a colori di Nan Goldin (Picnic on the Esplanade, Boston, 1973), si preannuncia l’ossessione di dover documentare la storia, i rituali sociali, la vita di gruppo e le esperienze biografiche che, nel corso degli anni, l’AIDS e la tossicodipendenza strapperanno a Nan Goldin come alla Arbus molte di queste amicizie fotografate.
La potenza evocativa del fotogramma contiene in sé un istante irripetibile del tempo che, come afferma Ferdinando Scianna, rende la fotografia straziante, spingendoci a custodirla nel nostro intimo e nella nostra domesticità protetta. Ma questo non è il solo strumento che contiene la drammaticità della memoria, anche gli oggetti, come spiegato da Jean Baudrillard in Il sistema degli oggetti (1968), nella loro funzione reale hanno un preciso significato e significante all’interno della dimensione sociale e antropologica dell’uomo contemporaneo.
MARIA GRAZIA CARRIERO
Così, Maria Grazia Carriero (Gioia del Colle, 1980), mossa da questi elementi, crea per la residenza artistica Public Scape Taranto una installazione, attraversa-menti (2018), in cui conserva in contenitori di vetro le memorie del capoluogo ionico. Una città complessa, profondamente studiata dalla Carriero per anni, prima con la fotografia da reportage, poi oggi attraverso i differenti linguaggi dell’arte contemporanea. La Carriero percorre una geografia a ritroso dalla quale coglie sapientemente gli oggetti di vite passate e di architetture morenti: dai pezzi di calce di case disabitate a piante spontanee nate sui muri bianchi che divengono residenza del nulla, in cui il tempo e la natura cancellano i contorni e ne modificano la storia, i confini e le stratificazioni. In questa pratica, non solo si conservano le memorie fisiche e geografiche, ma anche e soprattutto le memorie individuali, fatte di pratiche magiche, di preghiere e di saperi popolari, di lettere e di strumenti del lavoro dei pescatori del luogo. Un rito, quello di Maria Grazia Carriero, che vede nell’attimo del cogliere e del conservare la paura di perdere la storia, l’ossessività di voler ricordare al pubblico l’inesorabilità del tempo che tutto distrugge e assottiglia e quindi il compito dell’artista di dover restituire alla contemporaneità il passato anche nella sua tragicità.
UGO SPAGNUOLO
Sigillare la memoria storica è anche la pratica di Ugo Spagnuolo (Roma, 1964), in cui l’emblema della bottiglia ha una funzione apotropaica ben designata: le memorie al loro interno vengono catturate e chiuse ermeticamente dal pubblico, che diventa parte integrante dell’opera. Attraverso un lavoro di Street Art presso la fermata della metropolitana Porta Furba della linea A Roma, Spagnuolo ha realizzato un murale, Vuoti di memoria (2018), di oltre 400 mq, in cui sono stati immortalati diciotto personaggi storici del quartiere romano colti nell’attimo in cui sigillano una bottiglia che diventa un contenitore di memoria. Il rito della sigillatura delle bottiglie, fortemente simbolico, è il luogo in cui si paralizzano icone e reminiscenze, dove si assolve sul piano culturale al concetto di “presenza” espresso da Ernesto De Martino, la capacità cioè di riportare alla luce quelle esperienze personali e collettive che la tradizione rievoca per rispondere pienamente a una crisi, che è data poi dall’incomprensibilità dell’uomo verso la morte, percepita come scandalo, come spazio straniero. Il vuoto di memoria diventa, per Spagnuolo, uno spazio da colmare, attraverso le testimonianze, i ricordi di passanti e di viaggiatori che ogni giorno compiono un percorso personale nella geografia complessa della contemporaneità.
‒ Fabio Petrelli
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