Arte & politica in un presente sempre più complesso (I)
Come l’arte si deve porre in questo preciso momento storico, a cinquant’anni suonati dal 1968 e con l’avvento lacerante dei populismi? Lo abbiamo chiesto a una rosa di protagonisti del dibattito artistico italiano contemporaneo.
CESARE PIETROIUSTI ‒ ARTISTA
Io credo che sia opportuno innanzitutto sbarazzarsi dell’idea che l’arte debba fare qualcosa. La ricerca e l’operare dell’artista propongono sempre e comunque spazi di libertà, di possibilità, di gioco, rispetto alle regole, alle abitudini, alle ideologie, e alle prese-di-posizione, siano pure eticamente e politicamente corrette. Per me fare arte significa non “prendere” (occupare) la posizione giusta; piuttosto riconoscere ed elaborare la tensione che esiste nel campo polare fra il “giusto” e lo “sbagliato”. Un campo di tensioni che prima di tutto è interiore, psichico, poiché nessuno di noi è tutto-giusto e, come ci ha insegnato Nietzsche, i più pericolosi sono proprio quelli che si proclamano (o si credono) tali. Il “populismo” – la semplificazione, il fare leva sulle emozioni facili e contagiose, il pretendere di avere sempre ragione – non è un fenomeno recente. E chi si indigna oggi mi sembra spesso cadere nelle stesse semplificazioni.
Vorrei che l’arte insegnasse a non avere paura, a continuare a credersi liberi, a pensare con gli altri, a spostare il punto di osservazione individuale nel luogo dell’altro poiché l’altro (l’immigrato africano e Salvini) è parte del sé.
ALESSANDRA PIOSELLI ‒ CURATRICE
L’arte dovrebbe tenersi alla larga dalla semplificazione della complessità, dai buonismi snob che mantengono intatti i rapporti di potere, dai discorsi moraleggianti che dividono, come gli integralismi, il bianco dal nero, i buoni dai cattivi, perché viviamo tutti dentro la contraddizione. Il populismo offre soluzioni semplici alla complessità del mondo. L’esperienza culturale allena il pensiero critico, che dovrebbe porre argini, ma non è dato sapere in quali spazi insondabili si tramuti in conoscenza, esperienza, azione.
Tuttavia, è necessario avere fiducia nel fatto che l’esperienza culturale – che è cognitiva – formi capacità più profonde di penetrazione del reale. Entrare nelle antinomie sì ma al contempo il politico non è rappresentazione, implica concrete relazioni di forze, dunque l’arte sceglie i propri interlocutori, dove stare, a chi parlare. L’Italia avrebbe bisogno di (molta) educazione (umanistica) e l’arte può essere strumento “civico” e metalinguistico al servizio di questa formazione.
ALFREDO PIRRI ‒ ARTISTA
Vorrei introdurre queste poche righe con un’affermazione inconsueta: credo che, prima il movimento del ‘68 e più tardi quello del ’77, abbiano contribuito all’allontanamento dell’arte dalla politica (e viceversa) attraverso una fusione dannosa e irreale. Credo anche che il cosiddetto populismo sia il risultato di un processo in parte avviato proprio allora attraverso le varie forme di socializzazione dell’arte o di estetizzazione della politica che avevano e continuano ad avere il fine di abolire quella distanza necessaria alla sopravvivenza di entrambe e a una loro possibile collaborazione critica.
Penso quindi che l’arte debba rapportarsi alla politica (e viceversa) mantenendo una distanza e che questo distacco si chiami “opera d’arte”. La fusione e la cancellazione di questa distanza portano a un’arte che rinuncia alla sua potenza sovversiva e creatrice di una differente visione del mondo… che dovrebbe essere il fine della politica stessa. Riusciremo a realizzare opere che stanno dentro questo solco? Questa è la domanda cui, credo, bisogna rispondere oggi.
FRANCESCO CASCINO ‒ ART CONSULTANT
Vedo l’arte come matrice unica di tutte le attività: pratica e logica da mettere a monte di tutti i processi, industriali e politici, urbanistici e relazionali. D’altronde gli unici contesti ancora pulsanti di armonia sono le città d’arte. Vedo le sue modalità esplorative e fertilizzanti in contrapposizione alle best practice che, assunte pedissequamente, ingabbiano l’immaginazione. L’arte che sposta l’angolo di visuale sui fenomeni complessi e ne formalizza gli elementi invisibili, unica risposta a fretta e bulimia ossessiva del presente, unica arma contro il degrado per recuperare esclusi e diseredati lasciati fuori dai sistemi di potere e dai salotti dell’arte stessa. Perciò l’arte è politica: leva strategica per comprendere sogni, bisogni e desideri.
Adesso che l’alleanza tra arte e politica si è interrotta, e se ne vedono i nefasti risultati, gli artisti e gli operatori devono in parte uscire dai musei e tornare a costruire dispositivi abilitanti del dialogo e dell’intelligenza emotiva partendo dalle strade, dalle periferie e dalle imprese, per arrivare appunto alla politica. Le buone intenzioni del ’68 vanno rilette alla luce della mancata creazione di questi dispositivi; un movimento che non ha lasciato tracce su cui fare esperienza e ridiscuterne il senso ogni giorno è diventato un museo fermo nel tempo, nonostante le geniali intuizioni.
RAFFAELE GAVARRO ‒ CURATORE
Anni Settanta del XX secolo e Anni Dieci del XXI secolo: tempi molto diversi, come i relativi Zeitgeist; diverse, molto di più, le realtà di riferimento, e quindi le corrispondenti Realitätsgeist (spirito della realtà); quindi inevitabilmente diversa l’arte di allora da quella di oggi. Se poi osserviamo le differenze dalla particolare prospettiva delle relazioni tra politica e arte, il linguaggio di quest’ultima negli Anni Settanta era parte di un’ampia e variegata dinamica alternativa alle condizioni date, che era, in modo statutario, tanto politica quanto culturale. Negli ultimi venticinque anni, politica e cultura hanno invece viaggiato su binari differenti e solo occasionalmente paralleli, quando, in tutta evidenza, la seconda si prestava docilmente all’intrattenimento o alla comunicazione.
Ma forse è stata proprio questa condizione una delle ragioni che ha riportato in questi ultimissimi anni la questione dell’impegno politico, o perlomeno del tema, nella cultura e nell’arte. Inutile nascondersi che però oggi il problema vero è riuscire a distinguere tra chi utilizza la politica come strumento di updating del proprio lavoro da quanti pensano di fare davvero politica con la propria opera, agendo in tutto e per tutto con la conseguente coerenza che, è bene ricordarlo, non è mai esente da rischi.
NANNI BALESTRINI ‒ ARTISTA
L’idea che l’arte possa avere un ruolo nella lotta politica in situazioni di pericolo per le libertà democratiche di un Paese è sostanzialmente insensata. I migliori teorici e studiosi di estetica hanno da decenni ampiamente dimostrato che si tratta di due sfere di valori e attività che non hanno alcun legame o reciproca influenza. (Il ’68 non ha avuto niente a che vedere con l’arte.)
Il mercato dell’arte e il suo sistema si sono recentemente inventati come attrattiva commerciale prima l’arte come gadget (Koons, Hirst, Cattelan), poi l’uso delle nuove tecnologie (con esiti pressoché nulli) e infine l’accoppiata arte e politica, con risultati spesso indecenti, come l’immagine del bambino immigrato annegato sulla spiaggia… L’attuale crisi politica italiana è soprattutto una crisi di valori etici e culturali, e l’artista in quanto produttore di cultura può combatterla con la qualità della sua opera, oltre che naturalmente con un suo eventuale impegno politico in quanto cittadino.
STEFANO CHIODI ‒ STORICO DELL’ARTE
Ciò che resta del ’68, ciò che può sollecitare la creazione artistica del nostro tempo, è la sua richiesta di autenticità, di una verità irriducibile alla norma sociale, indifferente persino alla sua concreta attuabilità politica. Una forma di parrhesia, per usare un termine caro a Foucault, cioè una volontà di dire sempre tutta la verità, in cui immagine, azione, parola turbano l’ordine in ogni sua piega: del discorso, del desiderio, della gerarchia sociale.
Non credo a un’arte “militante”, pedagogica, a qualcosa che si rivela sempre cattiva arte e cattiva politica. Al contrario, di fronte alle false soluzioni dei populismi, alla loro subdola e in apparenza irresistibile manipolazione del discorso pubblico, la strada per l’artista passa oggi solo dalla rivendicazione veritiera di tutta l’esperienza – dunque anche dei conflitti e dell’ambivalenza che riguardano noi stessi quanto il mondo – per poter attraversare il negativo, strapparlo alla sua apparente invulnerabilità e riaprire il campo del possibile.
TERESA MACRÌ ‒ CRITICA D’ARTE
“L’imagination au pouvoir” era lo slogan del movimento di contestazione del ‘68 (che ovviamente non ho vissuto) attraverso cui si intendeva capovolgere il mondo, riplasmando il visibile in forme e orizzonti nuovi, introducendo soggetti, oggetti differenti e nuove formazioni sociali. Insomma, marcusianamente, l’aspirazione comune era quella di costruire una società come opera d’arte. Un fallimento annunciato, quasi, alla luce dei fatti. Ma vi era una centralità dell’idea di distinzione che apriva i varchi alla differenza, al difforme, all’inconsueto rinnegando il precostituito. Oggi tutte queste spinte immaginifiche vengono ribaltate da derive oscurantiste e da scelte conformiste, legittimate da un becero consenso. In nome di chi? Ieri come oggi, l’arte (contemporanea) non ha altro obiettivo se non quello di re/immaginare il mondo per costruire spazi dialettici di antagonismo. Costruire per distruggere (populismi, demagogie, razzismi) è una condizione dell’arte permanente, immanente direi, per liberarsi dalla “violenza simbolica” che la banalità culturale e sociale odierna attenta a una soggettività sempre più appiattita nel suo immaginario e sottratta agli spazi liberatori del desiderio.
Non credo assolutamente che l’arte debba inseguire la politica nella sua ciclica volatilità e banalizzarsi ad essa, piuttosto, mantenere la sua autonomia e manifestarsi essa stessa come pensiero politico. Ciò che per me è diventato insopportabile è assistere alla ossessiva retorica delle “pratiche di condivisione e partecipazione” (pura demagogia estetica senza costrutto) e a quella della strumentalizzazione dei conflitti sociali. Tutto estremamente inautentico e convenzionale.
MARINELLA SENATORE ‒ ARTISTA
Io credo che uno dei più grandi problemi di oggi sia non solo stare insieme, ma come stare insieme; un problema politico di estrema rilevanza, e l’arte non può che suggerire visioni. L’arte si rivela, sempre più spesso, come un elemento fondamentale di quella che è tristemente già resistenza socio-politica, anzi diventa una delle condizioni della sua esistenza: definisce uno spazio dentro il quale la resistenza diventa immaginabile e quindi possibile.
L’artista, oggi più che mai, dovrebbe essere responsabile delle proprie azioni, dichiarazioni e produzioni, con il coraggio di portare avanti posizioni che non accontentino “tutti”, ma che almeno siano oneste: non ci si può nascondere e credere ancora in una nicchia di esclusività, il grave errore di sentirsi speciali e avulsi dalla strada, dalla vita di tutti i giorni. Dov’è l’etica? C’è una tale mancanza di sincerità che non mi sento tranquilla nel rapporto con altri esseri umani. A margine credo sia importante dire e ribadire con forza che c’è tantissimo da imparare.
FABIO CAVALLUCCI ‒ CURATORE
Personalmente prediligo un’arte che si immerge nel caos del mondo, che discute e interviene nella realtà. Posso però comprendere anche chi si dà a una meditazione più distaccata, allontanandosi dal trambusto per toccare le sfere universali. Anzi, a ben vedere è proprio questa la fase artistica dominante, con un’abbondanza di pittura persino astratta e informale.
Quello che non capisco non è tanto il silenzio dell’arte in questo momento, ma quello degli artisti. Gli artisti, in quanto intellettuali, avrebbero il dovere di intervenire in un momento in cui la nostra società è così confusa. Certo, la società non ha fatto molto per dare loro spazio negli ultimi anni. Ma sono convinto che sia il momento giusto per cambiare rotta. Per questo stiamo lavorando a una piattaforma che dia voce ai migliori esponenti della cultura contemporanea al fine di ricostruire un’idea di nazione, un’idea di Europa e, in fin dei conti, un’idea di civiltà.
‒ Santa Nastro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #45
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