Fiato d’artista. A Roma al Teatro Vascello una rassegna sulla Scuola di Piazza del Popolo
Ne abbiamo parlato con Evita Ciri e Nicola Campiotti che ci hanno raccontato come nasce la rassegna che ricorda gli artisti di Piazza del Popolo negli anni ’60.
10 giorni di spettacoli, incontri, documentari, workshop dal 29 novembre al 9 dicembre 2018 raccontano la straordinaria storia degli artisti di Piazza del Popolo a Roma (Mario Schifano, Franco Angeli, Cesare Tacchi, Giosetta Fioroni, Tano Festa, ma anche Kounellis, Pascali, Boetti etc.) tutti gravitanti intorno al mitico bar Rosati, in quel momento di particolare congiuntura, fucina di un felice e frizzantissimo scambio tra gli intellettuali dell’epoca. Il percorso, che si svilupperà in più momenti tutti imperdibili, è realizzato con il contributo di Fondazione Cultura e Arte e con SIAE – Società Italiana degli Autori ed Editori al Teatro Vascello, e prende le mosse dal titolo del testo omonimo dell’attrice Paola Pitagora che dà il nome anche allo spettacolo teatrale.Non mancheranno due mise en espace, Il Gioco dell’Arte, tratta dal libro di Agata Boetti e Addio Roma, tratta dall’omonimo libro di Sandra Petrignani. Ci saranno inoltre sette documentari, una tavola rotonda, tre focus di approfondimento, un laboratorio di scrittura teatrale in sei appuntamenti cui parteciperanno Fabrizio Gifuni, Antonio Rezza e Flavia Mastrella, con tanti momenti che sconfinano nel 2019. Ne abbiamo parlato con Evita Ciri e Nicola Campiotti, ideatori e registi dello spettacolo.
Come nasce il progetto Fiato d’artista?
Il progetto nasce dal desiderio di “ridare fiato” a un periodo artisticamente molto intenso per la nostra storia recente. Uno di quei picchi di energia creativa che Angelo Guglielmiha identificato, per il secolo scorso, negli anni Dieci, negli anni Trenta e appunto negli anni Sessanta. In quel decennio Roma era una capitale viva e internazionale, un epicentro di quel fermento che avrebbe portato alla nascita dell’avanguardia della cosiddetta “Scuola Romana di Piazza del Popolo”.
Perché riprendere le fila dell’esperienza della Scuola di Piazza del Popolo?
La ricerca creativa era in risonanza con un’energia che scorreva a tutti i livelli sociali, e anche se gli anni del Boom non sono stati per tutti così floridi come si racconta, sicuramente erano anni con una spinta propulsiva senza pari. Io sono di Roma e anche se non ero ancora nata negli anni Sessanta, ho vissuto varie fasi di questa città. Recuperare quel periodo oggi, in una Roma decisamente appannata da un lungo oblio, per me è un po’ un rendere omaggio a una vecchia leonessa.
Quali erano i tratti distintivi di quell’esperienza, a vostro parere?
Dal mio punto di vista i tratti distintivi di quell’esperienza erano legati ad un’eccezionale lucidità di sguardo e coerenza di propositi. La società stava rapidamente cambiando pelle, le miserie e la sofferenza della guerra lasciavano il posto ad un progresso industriale che avrebbe aperto le porte a una società edonistica, anticamera dell’odierna società dei consumi. Ma questa mutazione non corrispondeva a mio avviso a una mobilità profonda del pensiero. Quei giovani cercavano un nuovo linguaggio e non venivano capiti, vivevano in pieno quel cambiamento rilevandone già tutte le contraddizioni, in qualche maniera erano già ironici e critici rispetto a quel trionfo della mercificazione sull’idea. E anche se molti di loro hanno vissuto gli eccessi e il consumo di droghe, uno dei tanti doni che la nuova epoca portava con sé, non hanno perduto quella originaria e profonda chiarezza di sguardo.
Nel 2018 ricorrono 50 anni dalla morte di Pascali, di Fontana, di Leoncillo, ma ricorrono 50 anni anche da un anno nevralgico, il 1968: come lo spaccato storico artistico di cui vi occupate va ad innestarsi in quella vicenda? Con quali spunti per il presente che stiamo vivendo?
Nel nostro spettacolo raccontiamo il ’68 attraverso un evento: la morte di Pino Pascali. Pino muore a trentatré anni a causa di un incidente con la moto, sua grande passione. Quella morte segna la fine del magico cerchio di Piazza del Popolo, poco tempo dopo quel gruppo di amici, Tacchi, Lombardo, Festa, Kounellis, Mambor si sarebbero dispersi, inseguendo ognuno il suo destino. La parabola di Pino dal mio punto di vista ha molto a che fare con la parabola di quell’anno. Un incredibile potenziale risvegliato, difficile da controllare e da convogliare, che metteva in discussione certi paradigmi sociali considerati indiscutibili, e che alla fine si è disperso, vittima forse della sua stessa energia.
Si è disperso?
Forse il 68′ ha fallito perché a quella spinta propulsiva innovatrice non ha corrisposto una stessa attenzione all’evoluzione dell’umanesimo, inteso come attenzione all’essere umano. Per dirla parafrasando una celebre frase di Rita Levi Montalcini, oggi l’uomo ha raggiunto un incredibile sviluppo tecnologico a cui non corrisponde uno sviluppo del cuore, dal punto di vista della consapevolezza siamo come bambini che giocano con dei kalashnikov.
Ci spieghi meglio?
Oggi viviamo in una società tecnologica che allora sperimentava i primi collegamenti tra computer, e diamo per scontate tante vittorie sociali che sono figlie di quell’epoca, ma quella lucidità e quel desiderio di conoscenza e di consapevolezza, quella fame di cultura sono dei doni che abbiamo dimenticato e che dobbiamo recuperare, se vogliamo invece una società che progredisca a livello umano.
Come mai si è scelto di lavorare con un approccio multidisciplinare e non, ad esempio, con una mostra per realizzare questo omaggio?
Io vengo dal teatro, e la questione che mi sono posta davanti a questo spettacolo è stata proprio come parlare di arte sulle tavole del palcoscenico, rispettando la verità storica ma concedendosi di spaziare con la fantasia e l’emozione. L’unica risposta che sono riuscita a trovare è stata nell’immaginare uno spettacolo che è un flusso di recitazione, di immagini e di suoni.
E per quanto riguarda il progetto?
In ogni caso all’interno della Rassegna – che si aprirà in contemporanea con lo spettacolo, sempre al teatro Vascello – abbiamo invitato numerosi critici d’arte, storici, documentaristi, galleristi per creare un’occasione di racconto e di confronto: presenteremo documentari sugli artisti, daremo vita a letture sceniche, ospiteremo tavole rotonde, presenteremo libri… Qualche nome? Daniela Lancioni, Laura Cherubini, Ilaria Bernardi, Raffaella Perna, Ludovico Pratesi, Bruno Corà, Marco Giusti, Giacomo Marramao, Fabio e Fabiana Sargentini…
La rassegna prende il nome dal libro di Paola Pitagora, qui in forma di spettacolo. Come si passerà dal testo letterario a quello teatrale? E come qui la storia dell’arte si intreccia con quella personale dell’attrice?
Il libro di Paola mi è sempre molto piaciuto perché la vicenda personale, il suo amore con Renato Mambor quando erano ragazzi, è raccontato con la disarmante sincerità dell’adolescenza, e si intreccia a una vicenda collettiva, alla storia appunto di un gruppo di amici che avrebbe fatto parte dell’avanguardia romana. Trasporlo in versione teatrale non è stato facile, insieme a Nicola Campiotti che firma il testo con me, abbiamo mantenuto il filo rosso della storia d’amore, attraverso le lettere dei due giovani, e abbiamo ampliato tutta la parte che riguarda gli altri pittori attraverso un lunghissimo lavoro di ricerca di fonti. Ci siamo lasciati sedurre dal linguaggio cristallino di Mambor, da quello emotivo e smisurato di Pascali, dalle evocazioni di Kounellis, dall’esuberanza di Schifano, dalla malinconica lucidità di Tacchi, dalla precisione matematica di Lombardo, dall’ironia di Festa. E da lì, con tanta umiltà e tanto lavoro, abbiamo cominciato a costruire una storia per immagini suoni e voci…
– Santa Nastro
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