In morte dell’artista Ennio Tamburi. Il ricordo di Luca Arnaudo
È scomparso il 28 novembre 2018 il pittore Ennio Tamburi. Luca Arnaudo, critico e curatore, lo ricorda appassionatamente.
È morto a Roma l’artista Ennio Tamburi. Nato a Jesi nel ‘36, dopo una lunga stagione di sperimentazioni con tecniche diverse (grafica, scultura, assemblaggio) impiegate in una chiave politico-esistenzialista, a partire dagli anni Ottanta Tamburi era pervenuto a un’opera pittorica di grande coerenza e continuità, incentrata sulla ripetizione di segni ed elementi geometrici minimali, di frequente resi ad acquerello su pregiate carte orientali. Nel 2012 la Galleria Nazionale ha dedicato un’ampia retrospettiva a tale produzione, alla quale si era affiancata, più di recente, una ricerca su forme fluide e in movimento: l’artista ne aveva parlato, con toni che suonano ora di toccante premonizione, in un’intervista rilasciata ad Artribune nel marzo scorso. Questo è quello che ho potuto scrivere, con distacco redazionale, in morte di un importante artista. Ma io Ennio lo conoscevo bene, eravamo amici, e nel trovarmi ora a riflettere sulla sua mancanza vorrei poter rendere almeno in parte, a chi legge, anche lo spirito e la sensibilità dell’uomo. Incontrai per la prima volta Ennio nel 2005 in occasione di una mostra in una gioiosa galleria romana che ora non c’è più, la LIART al parco di Villa Borghese, e mi conquistò subito la sua intelligenza rigorosa ma lieve, l’amore per una misura compositiva nelle cose, intravista anche in elementi all’apparenza trascurabili, che donava all’ispirazione una quieta solidità.
L’INQUIETUDINE DI TAMBURI
Ennio, ad ogni modo, nella sua vita quieto non era, e anche per questo, credo, ha vissuto tanti anni tra Roma e Zurigo, trovando in Svizzera un rifugio di silenzio e concentrazione dove dedicarsi alla pittura come un esercizio spirituale, tornando in Italia per non perdere il contatto con il disordine vitale che tale esercizio poi trascendeva. Non a caso, del resto, Ennio ammirava in maniera sconfinata Ellsworth Kelly, di cui gli ho sentito spesso parlare come di un maestro per la sua capacità di estrarre forme astratte dall’esperienza personale (una volta, proprio per darmi una dimostrazione di cosa lui intendesse con la necessità per l’arte di partire sempre da un momento di vita, si mise a comporre sul pavimento del suo studio romano una grande serie di carte in cui spiccavano campiture di tanti colori felicemente sgargianti, confessandomi poi ridendo che l’ispirazione gli era venuta osservando dei panni stesi ad asciugare). Ancora a proposito di vita, voglio ricordare la ragione della sua ultima personale.
L’ULTIMA MOSTRA
L’anno scorso, dopo aver visto la mostra di un amico comune, Aldo Bandinelli, allestita nella sala espositiva del cimitero acattolico, Ennio venne da me chiedendomi di curare anche a lui una mostra in quel luogo, il quale gli era carissimo per le tante giornate trascorse passeggiando nel parco davanti alla Piramide Cestia, e mi pregò di farlo il più presto possibile. C’era, nella sua richiesta, un’intensità che mi sconcertò, e che caratterizzò anche tutta la preparazione delle opere, andata avanti lungo l’inverno e la primavera. Il risultato fu una serie di linee di colore che fluttuavano sulle pareti come lancette di un tempo astratto e insieme vissuto a fondo, poste dinanzi a un grande trittico dedicato alle forme mobili dell’acqua. Mi piace pensare che di un simile moto, in cui la materia si scioglie per diventare nuova energia, anche Ennio ora faccia parte.
–Luca Arnaudo
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