Zucchero filato e autocritica. S.O.S. Cotton Candy a Torino
La “secret location” scelta a Torino dalle curatrici Clara Madaro e Katiuscia Pompili accoglie una mostra che riflette sui meccanismi del mondo dell’arte. Mettendoli provocatoriamente in discussione.
S.O.S. Cotton Candy è una mostra definita dalle due curatrici, Clara Madaro e Katiuscia Pompili, un “anti-evento inatteso” rispetto all’“incombente lavoro delle public relations” oltremodo fitto nella settimana dell’arte torinese, che prevede tabelle di marcia, incontri e partecipazioni per gli addetti al settore (e non solo). È una anomalia geniale che evidenzia la retorica snervante e ironizza sulle dinamiche del mercato e della critica dell’arte contemporanea: l’obiettivo è ripensare – e ripensarsi – all’interno dello spazio espositivo (non a caso una secret location svelata solo dopo la “chiamata di emergenza”); provare rinnovato appagamento nei confronti dell’opera nella sua essenza; divertirsi e dilettarsi senza l’opprimente senso di pregiudizio verso l’ambiente culturale in cui si è inseriti.
Secondo Katiuscia Pompili: “‘SOS Cotton Candy. Call for break’ è una chiamata che il mondo dell’arte deve fare prima di tutto a se stesso, perché riflettere sulle dinamiche che lo attraversano in modo critico e non rumorosamente plateale, come avviene ormai sui social network, è l’unico modo per riportare l’arte ad avere una centralità nella vita reale“.
Clara Madaro prosegue: “L’idea nasce da una riflessione sul continuo stato di emergenza in cui si lavora nel mondo dell’arte contemporanea che diventa norma ed è spesso accompagnato dalla paura di sbagliare. Ci chiamiamo di continuo per risolvere problemi, per accertarci che tutti presenzino, per fare in modo che tutto funzioni alle condizioni stabilite, ma l’arte deve anche legarsi al desiderio di far saltare le condizioni abituali della produzione, della conoscenza e della socialità”.
LA MOSTRA
Effettivamente, l’assetto della mostra non delude le aspettative: innanzitutto, l’ospite, in solitaria, viene accolto con dello zucchero filato – associando subito il sapore e la consistenza alla tenerezza di un’infanzia non semplicemente anagrafica, ma culturale – e prosegue la visita in un spazio ispirato allo studiolo rinascimentale, luogo privilegiato per l’intima meditazione. Lo spazio espositivo e quello privato coincidono: oggetti quotidiani come mobili, giornali, piante si divincolano dal loro status e diventano “oggetti-amuleti”, “oggetti riparati” protagonisti dell’esposizione in maniera inattesa, privandosi della loro funzionalità e liberandosi dagli schemi di mero opportunismo. Una ribellione dell’arte verso la sua strumentalizzazione e mercificazione, che riconcede dignità al valore affettivo dell’opera e che ne identifica una nuova tendenza all’otium poetico. Filo conduttore della mostra è l’eros – di cui il nodo più eclatante è Romantic Porn di Giuseppina Giordano – che riflette, parafrasando Schopenhauer, sull’inganno della natura e sul desiderio sia delle relazioni amorose sia di quelle intellettuali. Il tutto con spensieratezza e improvvisazione calibrate. La mostra si può riassumere prendendo in prestito le parole di Battiato, colonna sonora della mostra (parte dell’installazione di Johanna Billing, I’m gonna live anyhow until die): “Un nucleo si divide / l’errore si interrompe / e dentro il meccanismo / un velo che si chiama caso”.
‒ Federica Maria Giallombardo
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