Il senso del provvisorio negli igloo di Mario Merz. A Milano
Nomadismo e precarietà della condizione umana, alla ricerca di se stessi in un sentiero costellato di igloo. Tra luoghi senza tempo o senza strada evocati negli spazi dell’HangarBicocca.
Grattacieli, palazzi, torri, castelli, templi sono archetipi dell’architettura che storicamente hanno modificato in ascesa la linea del paesaggio, identificando nell’abitare una casa un certo grado di civiltà raggiunto, il luogo del progresso. Per Mario Merz (Milano, 1925-2003), figura emblematica dell’Arte Povera, il concetto di casa si materializza nell’igloo (talora anche indicato con altri termini, tra cui ventre, tenda, capanna), metafora dell’habitat ideale, del rapporto uomo-natura, che rimanda a una dimensione lontana, arcaica, di nomadi e cacciatori, al contempo moderna, se si pone l’accento sui flussi migratori attuali. Una visione orizzontale la sua e decisamente democratica, di equilibrio precario. “Siccome io considero che in fondo oggi noi viviamo in un’epoca molto provvisoria, il senso del provvisorio per me ha coinciso con questo nome: igloo”, dichiarava l’artista.
La mostra meneghina, che inaugura la nuova stagione di Pirelli HangarBicocca, come si evince dal titolo celebra gli igloo di Mario Merz, riunendo in via eccezionale un corpus di 31 esemplari provenienti da istituzioni museali di rilievo. All’orizzonte, nell’ambizioso progetto espositivo firmato dal direttore artistico Vicente Todolí con la partnership della Fondazione Merz di Torino, si staglia una “città irreale”, un villaggio con sentieri costellati di igloo diversi tra loro per forme e materiali. Si alternano medium naturali e industriali, come argilla, ferro, cera d’api, rami, lastre di pietra, di ardesia e granito, giornali, vetro, gommapiuma, e le molteplici ibridazioni ‒ con l’ausilio di mastice e morsetti – trasformano la superficie semisferica della struttura metallica di base attraverso un processo di astrazione che supera i confini tra interno ed esterno, ridefinendo l’idea di spazio, la relazione tra pittura e scultura, tra individuo e società, arte e vita.
ATTRAVERSAMENTI E CONTRASTI
“Nell’igloo lo spazio esterno e lo spazio interno sono equivalenti”, asseriva Merz, a cui era caro il concetto di attraversamento, tradotto nella compenetrazione virtuosa di elementi, come un tubo al neon, un imbuto, una tela o la lancia, per introdurre nuovi significati e potenza espressiva. Secondo l’artista “l’igloo è dato dai contrasti: chiaro-scuro, dentro-fuori, materiale leggero e pesante. Sono le contraddizioni che l’uomo ha sulla terra, nella vita”. Dicotomia che si riflette nei messaggi carichi di significato esistenziale ricorrenti nella sua poetica, ispirati ora dal clima culturale dell’epoca, come accade per lo slogan di contestazione contro il consumismo apparso alla Sorbonne in pieno ’68 (riprodotto in Objet cache-toi, letteralmente, “oggetto vai via, nasconditi”), ora dalla letteratura ‒ si pensi ai versi di Ezra Pound (è il caso di If the hoar frost grip thy tent / Thou wilt give thanks when night is spent, del 1978, ovvero, “Se la brina afferra la tua tenda / Renderai grazie che la notte è consumata”) ‒, evidenziando la parola scritta, la citazione, con neon di colore blu o rosso.
1968-2003
Le coordinate della parabola artistica proposta – lungo l’arco temporale 1968-2003 – in altri lavori sono tracciate con una sequenza di numeri al neon, quella codificata dal matematico Fibonacci e introdotta nella produzione di Merz già dai primi Anni Settanta In rassegna, dunque, un gruppo di installazioni prodigioso, a partire dalla variante del primo nucleo, Igloo di Giap (1968), con la riflessione “buddistica della guerra e della vita delle armi” sintetizzata nella frase del generale vietnamita Võ Nguyên Giáp ‒ “Se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza” ‒, per arrivare a Senza titolo (doppio igloo di Porto), del 1998, con cui si chiude l’allestimento, un vero coup de théâtre mitizzato dalla visione regale di un cervo impagliato sulla sommità dell’opera. Un altro tema, quello degli animali con il loro simbolismo primordiale, ricorrente nelle riflessioni di Merz, che convergono in una concezione circolare del tempo, sospeso nell’igloo in un eterno presente.
‒ Domenico Carelli
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