Della paura e della speranza. Jota Castro a Napoli

Una narrazione artistica in cinque sedi, cinque momenti, cinque colori emotivi. Dalla galleria Umberto Di Marino a due chiese, un castello e un palazzo storico. L’arte e la denuncia di Jota Castro pervadono Napoli.

Una mostra che è come un libro”, per il suo autore, e che ti avviluppa. Che abbraccia la città in cinque sedi, tentacolare come inquietudine serpeggiante, ma schietta e presente come l’ammonimento di chi ti vuol bene veramente. E che di quei luoghi, pregni di storia e senso, ti impedisce di ignorare la bellezza, conducendoti per mano a riscoprirli nuovi, in un pellegrinaggio interiore e reale alla ricerca dei capitoli espositivi. Una vera e propria riscrittura psicogeografica degli spazi urbani consueti.
Jota Castro (Yurimaguas, 1965) rilancia la sua abilità icastica ‒ nel forgiare simboli per immagini, di esatta pregnanza significato/significante –, allargandola stavolta ai contesti ospitanti, parte attiva della costruzione di un’estesa allegoria site specific. Ed ecco dunque che la narrazione per emblemi consegna a ciascuno di essi un ruolo esperienziale ed emotivo specifico, nell’indagine della crisi sociopolitica mondiale. “Non so come finirà, ma ho tante paure, domande, empatia, sentimento”.

ALLARME NASCOSTO

E la “storia di un’osservazione” incomincia proprio dalla paura. “Allarme” sembra infatti la parola chiave delle opere in galleria, a partire dalla scivolata suicida di Enjoy your travel, riproposta a distanza di dodici anni nella stessa sala, con l’amara coscienza e sorda certezza di chi ci aveva visto giusto, in tempi non sospetti.
La “pietas” evocata nel raccoglimento dell’Ipogeo di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco diviene invece la giusta sepoltura empatica per Refricare cicatricem, farfalle schiacciate da massi, fragili, splendide e tarpate, come le nuove generazioni in tempi di ineguaglianza.
“Nascosto” appare invece la cifra del mood espositivo al Riot, luogo simbolo della cultura – non a caso – underground partenopea. A partire dal rimosso degli occhi sbarrati di terrore che non vogliamo vedere, ma che ci riappaiono a tradimento tra le assi del pavimento in Would I lie to you?.

Jota Castro. Cave Canem. Exhibition view at Galleria Umberto Di Marino, Napoli 2018. Courtesy Galleria Umberto Di Marino, Napoli. Photo Danilo Donzelli

Jota Castro. Cave Canem. Exhibition view at Galleria Umberto Di Marino, Napoli 2018. Courtesy Galleria Umberto Di Marino, Napoli. Photo Danilo Donzelli

VERSO LA SPERANZA

No, non si può mentire alla verità, ma una volta accettata si è pronti per il catartico cortocircuito del vedersi riflessi nell’auto-empatia e auto-coscienza di Borders e Leche y Ceniza, o per il commuovente tentativo di “ricucire” dolore ed errori, trasformando in poesia d’oro la crepa di Is it getting better?, significativamente installati nella recuperata San Giuseppe delle Scalze.
Resta l’ariosa carezza del vento a sussurrare “speranza”, l’ultima parola che appare come chiave del capitolo finale allestito a Castel Sant’Elmo, “luogo che ha una energia, una violenza, una tenerezza, che fa sognare, e che è come un teatro dall’alto del quale vedi tutta Napoli”.  Sfiora manette da spezzare, nel pungolo allo stomaco di Possa la tua luce essere eterna e il tuo dolore transitorio, e sospinge la toccante determinazione e purezza infantile delle innumerevoli barchette di carta de La Niña, la Pinta e la Santa Maria. Possa anch’esso non soffiare invano.

Diana Gianquitto

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Diana Gianquitto

Diana Gianquitto

Sono un critico, curatore e docente d’arte contemporanea, ma prima di tutto sono un “addetto ai lavori” desideroso di trasmettere, a chi dentro questi “lavori” non è, la mia grande passione e gioia per tutto ciò che è creatività contemporanea.…

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