Trent’anni di arte contemporanea. A Prato
Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato ‒ fino al 25 giugno 2019. Nel trentennale dall’apertura del museo cittadino, una mostra ne ripercorre la storia espositiva e il rapporto con i visitatori, esponendo i dati analizzati di questi tre decenni, accanto alle opere più significative esposte.
A seguito della tragica, prematura scomparsa del figlio, l’imprenditore Enrico Pecci volle eternarne la memoria erigendo a Prato un museo a lui intitolato. Da questo atto d’amore paterno nacque il Centro Luigi Pecci, grazie al quale la città può vantare una sede istituzionale esclusivamente dedicata all’arte contemporanea. Da allora, a Prato si sono succeduti i grandi nomi della scena mondiale, e si sono dibattute tematiche di stretta attualità, dalla politica (l’arte post-sovietica degli Anni Novanta) alle tendenze di stile come l’Arte Povera e la Neoavanguardia. Grazie al Pecci, Prato si è viepiù aperta al mondo, e il mondo ha potuto conoscere Prato.
UNA MOSTRA DIDASCALICA
Nonostante le interessanti premesse concettuali, la mostra così realizzata appare un’occasione mancata. In primo luogo, perché l’assenza di una pubblicazione d’accompagnamento rischia di consegnare all’oblio futuro un evento culturale che invece è di per sé utile per lasciare traccia di questo report sui primi tre decenni di attività del Pecci; inoltre, la mancanza di un apparato didascalico, che contestualizzi artisti e mostre nel quadro storico di riferimento, rende forse più ardua la comprensione delle scelte del museo, almeno per il pubblico dei meno esperti. Considerando inoltre che l’elemento di novità della mostra è rappresentato dall’analisi dell’interazione del museo con la città e gli artisti, attraverso una serie di dati opportunamente trattati e raccontati attraverso la nuova metodologia del text and content analysis, accanto alla timeline disegnata dallo studio grafico Sara De Bondt. Una mostra narrativa, di catalogazione e ricerca, che avrebbe forse necessitato di un minimo di spiegazione dei dati analizzati. È questa infatti la prima parte della mostra, insieme a una selezione di cataloghi e documenti delle mostre passate.
Nella sua seconda parte, una selezione di opere (in gran parte provenienti dalla collezione del museo), ripercorre visivamente quelle medesime mostre: da Mario Merz a Julian Schnabel, da Anish Kapoor a Vito Acconci, fino alla videoarte cinese, scorre davanti al pubblico l’ultimo mezzo secolo di storia dell’arte, dai poveristi al neo-pop, dalla performance alle installazioni architettoniche. Un percorso che documenta la caleidoscopicità della storia espositiva del Pecci e le molte occasioni di riflessione e confronto portate nella città di Prato. Tuttavia, come detto, con un adeguato apparato esplicativo avrebbe potuto meglio dialogare con il pubblico.
UN PERCORSO DA COSTRUIRE
Una mostra interessante, ma comunque di repertorio, come del resto la maggior parte delle mostre susseguitesi al Pecci negli ultimi due anni. La sensazione è che il museo non sia ancora uscito dalla riorganizzazione e che debba ancora riprendere pieno contatto con la scena artistica di questi ultimissimi anni. È tuttavia un fatto che il Pecci si sia aperto in maniera esponenziale al cinema e alla videoarte, e sia riuscito a diventare un frequentato luogo d’incontro anche al di fuori delle esposizioni, aprendo con la città un dialogo assai proficuo.
L’auspicio è che l’apertura continui anche sotto il profilo artistico, lasciando spazio ad artisti e curatori emergenti. Solo così, crediamo, il museo assolverà pienamente il suo compito.
‒ Niccolò Lucarelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati