20 anni di Fondazione Baruchello a Roma. L’intervista a Carla Subrizi
Inaugura l’11 dicembre 2018 Agricola Cornelia S.p.A, la mostra che celebra i 20 anni della Fondazione Baruchello. Ne abbiamo parlato con la direttrice, Carla Subrizi
Agricola Cornelia S.p.A è un progetto che Gianfranco Baruchello realizzò tra il 1973 e il 1981. Su quell’idea e quei risultati nacque nel 1998 la Fondazione Baruchello, che oggi festeggia 20 anni. Come? Con una mostra che riporta alla luce gli esiti di quell’esperienza. A cura di Maria Alicata e Daniela Zanoletti, si svolgerà nella sede di Via del Vascello 35, presentando inoltre opere degli anni ’70 e documenti inediti dalla collezione dell’istituzione. Ci racconta il progetto la direttrice, Carla Subrizi.
20 anni dalla nascita della Fondazione. Come li festeggiamo?
Festeggeremo con una mostra e un brindisi con tanti amici che negli anni hanno partecipato al nostro progetto. La mostra ha costituito un’occasione per riproporre una lunga azione che Baruchello realizzò negli anni Settanta negli stessi terreni dove poi nel 1998 è nata la Fondazione. Ci siamo chiesti: quale storia e quali esperienze sono stratificate in questo luogo e quale il legame forte che ha spinto a una donazione e a dare avvio a questa impresa culturale? Agricola Cornelia S.p.A. dal 1973 al 1981 fu un progetto politico e poetico che cercò di sottrarre terre alla speculazione edilizia per restituirle alla campagna, ovvero alla coltivazione e all’allevamento.
In che modo?
Arte e politica, arte e vita confluirono in un progetto totale, anti-istituzionale, che ripensava l’economia a partire dal confronto tra valore d’uso e valore di scambio del prodotto agricolo (o dell’acquisto di una pecora) e del prodotto artistico ovvero dell’opera d’arte. La Fondazione, che è nata dall’incontro tra Baruchello e me, continua a coltivare non più ortaggi o barbabietole, ma idee, studio e ricerca, progetti con artisti con i quali abbiamo affrontato questioni credo importanti all’inizio di questo nuovo secolo. Quel progetto ecologico molto precoce, politico nelle forme del rifiuto del monumentalismo di tanta arte ambientale di allora, resta una radice su cui riflettere, per fare confronti, individuare le differenze che hanno animato allora Baruchello e che hanno animato poi la Fondazione.
Come è nata la Fondazione? Ci racconti un po’ la storia?
La Fondazione è nata come dicevo nel 1998. Abbiamo risistemato la grande casa-studio dove Baruchello era vissuto e abbiamo trasformato i locali in una Biblioteca aperta al pubblico, in spazi per lavorare, in studi per artisti, utilizzando anche altri locali esterni che sono ubicati nei 10 ettari che circondano la sede principale. Dal 2000 anno dell’inaugurazione abbiamo iniziato a realizzare progetti con gli artisti nella forma, soprattutto, di laboratori o seminari di ricerca.
Quando avete cominciato questo percorso che aspettative e obiettivi avevate? Quali pensate di aver pienamente raggiunto e in cosa ancora non siete soddisfatti?
Questa è una domanda importante. All’inizio eravamo pieni di entusiasmo e abbiamo sfidato molte difficoltà: un luogo assai decentrato (abitando noi a Roma e lavorando io all’Università), una biblioteca quindi in campagna (anche se a 15 minuti, con una superstrada, dal MAXXI), seminari con gli artisti ai quali non ponevamo limiti di tempo e che ci hanno coinvolto anche per un intero anno. L’idea è stata quella che ogni luogo potesse diventare un “centro” propulsivo anche se periferico. Volevamo che il lavoro che gli artisti portavano avanti con i giovani partecipanti al workshop potesse svolgersi secondo la ricerca necessaria per arrivare alla realizzazione di un progetto, a volte anche della sola durata di un giorno: l’esito non è quasi mai stato una mostra ma piuttosto un’azione, una performance nelle forme di una festa (Fantin), di una distribuzioni di chiavi a un pubblico costruito via mail per abitare una stessa casa per un giorno (Pietroiusti), a traslochi dal centro alla Fondazione (Folci), a un sito mappadiroma.it (Lopez-Cuenca), a un’indagine sul paesaggio alla periferia di Roma (Bonetto).
Quindi…
L’obiettivo principale è stato lavorare fuori tendenza, indagando termini e questioni che sembrano troppo usati, facendo diventare questa indagine un lavoro di ricerca, con il coordinamento di artisti: abbiamo lavorato sul pubblico anche andando direttamente a domicilio con i progetti (Folci), sul termine condivisione, sulle politiche del corpo, sui residui dell’immagine, sulle connessioni e sconnessioni tra fatti, politica e arte, sull’archivio e l’archiviare. Molti giovani che hanno seguito questi seminari sono diventati artisti, oggi significativi nel panorama italiano e internazionale, molti sono curatori. Il nostro intento iniziale era utilizzare gli spazi della Fondazione come una grande casa, accogliente, nella tranquillità di un luogo in campagna, per lavorare e mangiare insieme, dove c’era anche lo spazio per dormire se necessario.
Nessuna mostra?
Non pensavamo a fare delle mostre ma workshop e seminari. Abbiamo lavorato sul sogno, su artisti inesistenti, su identità collettive, sul paesaggio in periferia, su fatti politici (il 1977 a Roma, visto dalla prospettiva di un artista spagnolo e di giovani nati dopo quell’anno), abbiamo scavato buche di m 4 x 4 per svolgere un dibattito sul lavoro (il progetto di Folci), abbiamo fatto serate in teatro improvvisate, viaggi dal Colosseo alla Fondazione con tappe durante le quali artisti, poeti, attori facevano letture o performance, abbiamo lavorato per ospitare i bambini costretti al carcere fino a tre anni (con Leda Colombini).
Nel 2015 poi un cambiamento…
Sì, abbiamo acquisito un nuovo spazio a Roma, diretto da Maria Alicata, che ha contribuito a diversificare il lavoro e le attività. Questi venti anni hanno visto tuttavia molti mutamenti e anche noi stiamo riflettendo su quali siano oggi le necessità e soprattutto cosa oggi abbiamo voglia di fare. Baruchello è presente come un importante pilastro e come una radice di tante riflessioni. Oggi pensiamo comunque che siano necessari e urgenti nuovi approfondimenti su tante parole e concetti, nuove forme di dialogo, la diffusione delle azioni culturali a un pubblico sempre più vasto e diversificato, il dare più spazio e voce ai giovani, un lavoro per Roma che vive un periodo di crisi e degrado molto avanzato, la collaborazione con istituzioni sia italiane che internazionali per progetti comuni, il cercare e inventare forme di sovvenzione per continuare a andare avanti.
Cosa c’è all’orizzonte?
Vogliamo organizzare una serie di incontri per cercare di capire, insieme, cosa sia più necessario in questo momento storico. Abbiamo consolidato negli anni il nostro progetto. Se all’inizio abbiamo puntato soprattutto sui processi e sulla costruzione di comunità quali basi per la realizzazione dei progetti, oggi pensiamo che sia divenuto importante e urgente insistere su tanti argomenti già affrontati, in altro modo e con diverse prospettive. Sono le prospettive che cambiano, più che le questioni.
Come è cambiata la percezione sul lavoro del maestro in questi ultimi 20 anni? è evidente che c’è stata una profonda riscoperta del suo lavoro…Pensate che oggi la critica abbia compreso pienamente la ricerca e il mondo di Baruchello?
Certamente anche il lavoro della Fondazione ha contribuito a una maggiore conoscenza dell’opera di Baruchello. Io stessa con un mio lavoro postlaurea avevo iniziato a occuparmi di Baruchello assai prima della nascita della Fondazione. Abbiamo realizzato monografie importanti, abbiamo collaborato con istituzioni internazionali. Dalla mostra alla Galleria nazionale d’arte moderna (a cura di Achille Bonito Oliva), alle mostre in Germania (Amburgo e Karlsruhe), a Londra (Raven Row), a Parigi e a Nizza (Ecole des Beaux-Arts e Villa Arson), a Rovereto (Mart), a Biennali e Documenta, per non parlare della collaborazione con Massimo De Carlo e alle mostre a Londra, Hong Kong, Milano, tante cose sono avvenute. Noi attualmente alla Fondazione lavoriamo per dare sempre maggiori elementi alla storicizzazione dell’opera di Baruchello (stiamo anche lavorando al Catalogo generale).
Come giudicate questi corsi e ricorsi dell’arte?
Non credo molto ai corsi e ricorsi, non c’è un meccanicismo nella storia, piuttosto credo che sia la stessa storia dell’arte (chi opera per la sua costruzione) che scrive e riscrive i suoi percorsi in relazioni ai cambiamenti storici, geopolitici, globali sempre diversi. La storia dell’arte, soprattutto nel XX secolo e in particolare nella seconda metà di esso, si è identificata nella storia dei movimenti artistici, tutti quei movimenti che hanno costruito tendenze, precursori e successori che arrivano fino alle generazioni più recenti. Tanti artisti e artiste sono stati profondamente penalizzati da questo cinico meccanismo molto spesso connesso alle strategie del mercato. La critica quindi, anche oggi, si trova di fronte a due possibilità: o fare ricerca, anche su quello che solitamente sembra molto noto e oramai esaurito, o scrivere e fare mostre su quello che è stato più di successo perché è così che si diventa più noti. Il successo genera successo. Lavorare sulle lacune, sulle omissioni, su ciò di cui si trovano ancora poche righe nelle storie dell’arte, sulle assenze dagli “indici dei nomi” che sono alla fine dei libri, richiede invece coraggio e molta convinzione.
–Santa Nastro
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