In ricordo di Enrico Crispolti. Linda Kaiser ricorda il professore, critico militante, amico
L’appassionato ricordo dell’allieva, amica e storica dell’arte Linda Kaiser, dedicato a Enrico Crispolti, scomparso a Roma l’8 dicembre 2018
Enrico Crispolti ha sempre pensato che conoscere l’autore fosse la grande chance del contemporaneista. Per me è stata una altrettanto bella opportunità conoscere, frequentare ed avere come grande amico un critico militante come lui. Enrico aveva ben ribadito la sua riflessione anche nel volume Come studiare l’arte contemporanea (Roma, Donzelli, 1997; II ediz. 2000; III ediz. 2005; nuova ediz. 2010). Insieme a tanti miei compagni di corso e colleghi, oggi più o meno famosi, so di far parte anch’io in minima parte della lunga esperienza che l’ha portato a elaborare il testo e a dedicarlo “Agli allievi della Scuola di Siena e a Manuela”. Posso vantare di essere stata tra questi allievi sin dall’a. a. 1989-90 alla Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte dell’Università di Siena, che lui anche dirigeva.
LE LEZIONI
Ricordo l’argomento del suo corso al primo anno, così sintetizzato: a) Storia e critica dell’arte contemporanea (premesse metodologiche) b) Lucio Fontana: un itinerario spaziale. C’erano dentro, sin da subito, la sua complessa personalità e la sua visione. Innanzitutto, emergeva la funzione formativa propria del docente, che sollecitava una riflessione sull’identità metodologica dello studio dell’arte del nostro tempo e sul pensiero critico da vagliare sul campo – elementi per nulla scontati a quell’epoca –, secondo una reciproca complementarità, dunque, fra storiografia e critica. Enrico ci insegnava che la nostra “creatività critica” si doveva avvalere di intelligenza, metodo e sensibilità, manifestandosi nella “capacità testimoniale” relativa alle nostre scelte e nella disponibilità all’apertura su un “orizzonte ulteriore” del possibile, del diverso, dell’alternativo. Per noi tutti, già laureati nel vecchio ordinamento, vincitori di concorso e studiosi teorici delle più disparate discipline – c’era chi era capace di fare attribuzionismo persino attraverso un’analisi tricologica, c’erano gli iconologi romani, gli studiosi toscani di arti decorative, i medievisti e gli antichisti e così via –, le lezioni di Enrico spostavano l’asse di un mondo. Si tenevano allora alla Certosa di Pontignano, un gioiellino architettonico incastonato nel Chianti senese, spesso nella bellissima Sala Bracci, affrescata con l’Ultima Cena tardo cinquecentesca di Bernardino Poccetti.
IL SISTEMA DELL’ARTE
Da lì le sue parole era come se si staccassero dalla cattedra per calarsi in un’attualità che conoscevamo poco, quella della cosiddetta militanza. Enrico ci parlava del sistema dell’arte: di gallerie e mercanti, di mostre e curatori, di documenti diretti (le opere) e indiretti (gli scritti di diverso genere), di nuovi parametri e questioni di linguaggio. Ci portava gli artisti; li faceva presentare al pubblico da alcuni di noi “contemporaneisti” in un utilissimo esercizio del mestiere; infine, provocava le nostre domande e le nostre interviste su una materia viva. In Certosa, grazie a lui, ho conosciuto personaggi come Pierre Restany e Daniel Spoerri, Karel Appel e Leo Lionni, per citarne soltanto qualcuno. Quell’anno Enrico aveva proseguito il corso con la case history di Lucio Fontana, di cui ci aveva illustrato e inquadrato i temi della produzione e le problematiche affrontate nel curare il catalogo generale delle opere dell’artista, pubblicato nel 1974 (Bruxelles, La Connaissance) e nel 1986 (II ediz. Milano, Electa) – la terza edizione vedrà la luce nel 2006 (Milano, Skira). Qui emergeva l’esercizio del critico come da lui stesso teorizzato, cioè una sorta di “autoindividuazione progressiva”, conquistata attraverso l’incontro con opere ed esperienze che la sollecitino. Poi c’è stata per me la pratica della tesi di Specializzazione con lui (dopo la sospensione dovuta al completamento del Dottorato a Milano): avevo scelto di occuparmi in particolare della variante italiana del Fluxus e del suo principio di indeterminazione. Ricordo i colloqui con Enrico nel suo labirintico, mitico archivio in via di Ripetta a Roma, dove andavo sempre molto volentieri ad aggiornarlo sull’andamento del mio lavoro. Scambiavamo idee e informazioni anche sulle reciproche attività, lui sorridente e seduto dietro a una montagna di carte, stratificate, disposte in pile, in un ordinato disordine in cui, con memoria enciclopedica, ritrovava sempre tutto. Comparivano ogni tanto, negli stretti corridoi costituiti da un’architettura di librerie che richiamava lo spontaneismo outsider, le figure che popolavano il luogo: la moglie Manuela Crescentini, sempre discreta, la figlia Livia – con la quale nacque allora una cara amicizia – e ricercatori, artisti, studenti di passaggio. Era un mondo che mi affascinava, fatto di incontri stimolanti, lontano dall’accademia e calato in un divenire continuo del presente.
L’AMICO
Ho avuto la fortuna di frequentare ancora di più Enrico quando mi invitò a tenere diversi Seminari in Specializzazione e, per oltre dieci anni, a Pontignano, mi diede così l’opportunità di contribuire con la stessa sua passione alla formazione dei miei colleghi più giovani. Nella foresteria e tra i chiostri dell’abbazia, sulle colline senesi, l’atmosfera era magica: dopo cena poteva capitare di commentare insieme il Festival di Sanremo nella saletta TV, mentre lui seguiva anche le notizie della sua squadra del cuore, la Lazio. Si pranzava e cenava con docenti, studenti e ospiti, in un continuo ricambio generazionale, che aveva avuto il suo apice nel 1997. Quell’anno Enrico aveva organizzato un incontro in Sala Bracci intitolato “Riflessione sulle professionalità storico-critico-organizzative artistiche”. Aveva invitato i suoi ex allievi contemporaneisti a raccontare ognuno la propria esperienza e avevamo dialogato tra noi senza alcuna rivalità – altro merito di cui rendo onore al professore – ma, anzi, “avevamo fatto rete”. Ricordo di aver così conosciuto: Luca Massimo Barbero, Luca Beatrice e Cristiana Perrella, Valerio Dehò, Carlo Alberto Bucci, Paolo Campiglio e molti altri. Da allora il sogno di Enrico era stato quello di costituire un’associazione di alumni della Scuola di Siena: mi aveva anche chiesto di occuparmene e mi dispiace di non essere riuscita a esaudirlo. Ricordo, poi, la sua prontezza nell’inserirsi in nuove tematiche, quando gli proposi il convegno nazionale Musei d’impresa. Identità e prospettive, per il quale nel 1999 mi lasciò carta bianca a organizzarlo in Certosa. L’evento segnò il primo incontro di molti curatori del settore tra loro e la nascita di una sorta di movimento. Il suo intervento iniziale, allora, fu per me notevole per la profondità della sintesi e per l’intelligenza dei contenuti.
I RICORDI
A me Enrico ha trasmesso tanto anche a livello umano. Tengo come una reliquia il suo volumetto sulla Pop Art del 1966 (Milano, Fratelli Fabbri), la sua Storia e critica del Futurismo del 1986 (Roma-Bari, Laterza) e i libri che, nel tempo, mi ha donato, spesso con simpatiche dediche. E poi voglio rammentarne lo stile, la gentilezza e l’eleganza, con indosso una cravatta futurista della sua collezione o, meglio, una di quelle tessute a mano da Livia. Voglio ricordarlo a Volterra e ad Art Basel o alla Biennale di Venezia ma, soprattutto, non lo dimenticherò, in anni ancora addietro, quando ci aveva accompagnati in una delle “visite guidate” del venerdì, programmate dalla Scuola di Siena. Ci trovavamo a Tuoro sul Trasimeno, dentro un progetto appena concluso di arte ambientale in riva al lago, in una spirale caudata formata da colonne-sculture in pietra serena di artisti diversi. Lì, in quella sorta di Stonehenge contemporanea, nello scenario della battaglia di Annibale contro i Romani, dopo le sue spiegazioni ognuno, scegliendo la propria opera ispiratrice (Cascella, Staccioli, Somaini, Von den Steinen, Joe Tilson, Pomodoro, Sørensen, ecc.), inscenò una performance sotto al suo sguardo divertito. Campo del Sole, per questo, resta per me significativo: il nostro campo di esercizio, il nostro sole. Enrico, grazie di tutto! Mi mancherai.
– Linda Kaiser
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