Una mappatura dell’incisione contemporanea. Il nord Italia
Una tecnica fine a se stessa, che lascia poco spazio alla creatività. Qualcosa di superato, di antico nel peggior senso del termine. Il rifugio per chi non si può permettere l’arte vera. La fatica di riprodurre quando ormai è così semplice. Beh, se ne dicono di ogni contro l’incisione, criticandola con argomenti che spesso sono in contraddizione fra loro. Ma chiamereste mai Warhol o Banksy dei “serigrafi”? E allora cerchiamo di capirci qualcosa di più, su quest’ennesima anomalia italica. Con una inchiesta che potrete godervi al 100% soltanto se la leggerete su Artribune Magazine.
Questo testo ha origine da un ricordo d’infanzia, la Val Camonica e le incisioni rupestri: 2000 rocce in 180 località di 24 comuni, con 8 parchi attrezzati per la visita, una delle maggiori collezioni di graffiti su roccia al mondo, primo patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 1979. La memoria ha attivato un percorso indisciplinato e personale lungo la penisola italiana alla ricerca di luoghi e protagonisti dell’“arte di disegnare sopra una superficie dura scavando” – secondo la definizione di Carlo Alberto Petrucci e Mary Pittaluga riportata sull’Enciclopedia Italiana del 1933 – con alcune domande in testa: esiste l’incisione contemporanea in Italia? Come si colloca nel panorama dell’arte? Quali sono i suoi luoghi, quale la sua visibilità? Chi sono i maestri viventi dell’incisione, chi la conserva e la promuove?
IL CASO NICOLA SAMORÌ
Nicola Samorì, pittore, scultore e incisore, nato nel 1977 a Forlì, ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Bologna e si è diplomato nel 2004. Oltre a esporre in musei e mostre nazionali e internazionali, ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti, come il Premio Morandi per l’incisione nel 2002. Samorì vive a Bagnacavallo, paese di 15mila abitanti nel ravennate, sede di un’istituzione leader per la grafica e l’incisione in Italia, il Museo Civico delle Cappuccine con annesso Gabinetto delle stampe antiche e moderne. La sua storia come incisore ha avuto origine a Ravenna, nella bottega di un grande torcoliere, Giuseppe Maestri, scomparso nel 2009. Senza quell’incontro, la curiosità e il corso in Accademia a Bologna non sarebbero bastati a fare dell’artista un incisore.
Abbiamo chiesto all’artista forlivese che ruolo abbia avuto questa tecnica nella sua crescita professionale: “Oggi incidere significa affidare il proprio tempo a qualcosa di pressoché irrilevante nello scenario artistico, e questa cosa rende – a mio avviso – l’incisione irresistibile. Incidere non ha più alcuna funzione sociale, come del resto dipingere o scolpire, con l’aggravante che non porta nessuna gratificazione economica e continua a divorare giorni. Ma è l’incisione che mi ha portato alla pittura. Ho dovuto graffiare lo zinco per incontrare la mia pennellata, in un processo lineare e insospettabile: dall’incisione al monotipo alla pittura. Incidere è un piacere personale, è lavorare al buio, è attendere l’imprevisto, il rovescio dell’immagine, il passaggio dal chiaro allo scuro. Nemmeno la fotografia nei suoi eroici esordi dispensava tanti ribaltamenti della forma e della visione. In Italia l’incisione non è più un oggetto di desiderio da tempo, mentre in Germania noto un’attenzione maggiore per il foglio inciso. Ho l’impressione che, nel secolo scorso, le incisioni siano diventate da noi il ‘vorrei ma non posso’ di molti piccoli collezionisti, perdendo valore e attenzione”.
Di fronte all’acquaforte Fiamma parassita (2017), ultima incisione realizzata e ispirata a un dipinto del pittore manierista Marco Pino, Samorì dichiara il suo interesse nello “scoprire come reagisce un palinsesto che definiamo ‘classico’ a un terremoto tecnico interno. È quanto accade in questa grande lastra, dove una Resurrezione, incisa all’acquaforte in modo accuratissimo, ospita il fragore della macchia generata dalla caduta di solvente sul velo di cera applicato sul metallo, già disegnato in ogni sua parte. Il solvente ha compromesso il disegno dell’area centrale, dilavando il corpo del risorto e lasciando i soldati atterriti davanti allo spettacolo di un’esplosione”.
Opere di tale qualità ci interrogano sul ruolo dell’incisione in Italia tra gli artisti noti del panorama contemporaneo. Samorì ritiene che “gli artisti oggi più in evidenza trascurino l’incisione, divenuta un rifugio per soli specialisti, dove il rigore di una morsura sfiora spesso il rigor mortis della disciplina. Proliferano i cavalli di battaglia della calcografia tradizionale: erbari e reticoli geometrici, sterpaglia e modelle sulla seggiola. Non mancano le ricognizioni capillari, in particolare nella mia cittadina – Bagnacavallo – dove viene repertoriata in modo sistematico l’attività della maggior parte degli incisori attivi in Italia”.
Non è solo una questione di scelta da parte degli artisti, ma il mercato pare non interessarsi più dell’incisione: “Enzo Cucchi è un grande incisore”, sottolinea Samorì, “e trovo che la sua generazione abbia accolto la sfida calcografica con passione, lasciandoci prove importanti, mentre subito dopo abbiamo assistito a un divorzio, legato in qualche misura al disinteresse del mercato per la produzione incisoria. Sopravvivono dei devoti della disciplina e degli ottimi tecnici che, però, non riescono a entrare nel dibattito del contemporaneo. È come se si fosse diventati impermeabili all’alchimia della lastra e alle sue possibilità rigenerative. Ora che la velocità di riproduzione delle immagini è impressionante, l’unicità dell’opera non ha perso del tutto la sua aura, se non altro per ragioni economiche, mentre l’incisione è diventata quell’ibrido scomodo che non ha senso trasformare in un oggetto unico e che non è capace di competere con il ritmo della moltiplicazione virtuale e tipografica”. Quanto a istituzioni e accademie, “ho recentemente visto una bella e fertile realtà a Urbino. Sono gli incontri con le persone e la pratica ossessiva a formare un nuovo incisore. L’impazienza prima ancora della disciplina”.
IL PUNTO DI VISTA DELLO STORICO
Abbiamo approfondito il significato dell’incisione oggi in Italia con lo storico e xilografo Edoardo Fontana, attivo a Milano, e direttore artistico dell’associazione PRINTS, fondata a Trieste per promuovere la conoscenza dell’incisore Furio de Denaro (Trieste, 1956-2012).
Fontana sostiene che “l’incisione come mezzo espressivo, con il fine che aveva alla sua origine, non esiste più. Chiunque intenda fare incisione oggi ha intenti suicidari, poiché non ha mercato. I giovani ripugnano l’incisione perché lenta; il mondo moderno ha un’altra velocità e gli artisti si adeguano. L’arte contemporanea per me è come pattinare sul ghiaccio, non si va mai sotto lo strato che si è creato per ultimo. La decisione stessa dell’incisione è penetrare nel fondo della materia: possiede una verticalità, una penetrazione dell’argomento, possibile forse precedentemente al web. La Rete ha creato un atteggiamento orizzontale, favorisce l’esercizio di una curiosità che induce a scegliere di sapere tutto, ma non sapere poco e bene. Anche la xilografia, la più banale fra le tecniche incisorie paragonabile a un timbro, ha come base uno studio che non consente di acquisire bravura senza applicazione”.
Eppure oggi in Italia esistono luoghi dediti all’incisione e artisti degni di nota: “Gli incisori che hanno un valore storico hanno tutti operato prima della Seconda Guerra Mondiale”, sostiene Fontana. “L’incisore in bottega non esiste più, esistono gli studi. Nessuno crede sia più utile avere un maestro. Gli artisti scelgono questa forma di espressione per le sue caratteristiche: è un continuo ripensamento del proprio modo di fare, è un modo di esprimersi che costringe a una fortissima autocoscienza e, se fatta in modo coerente, porta a una perpetua riflessione sull’arte stessa. È una manifestazione artistica molto colta, una ricerca ideale aprioristica, la maggior parte degli incisori non si ispira a ciò che vede, ma a suggestioni legate alla letteratura, alla filosofia, al mondo delle idee”.
Chiediamo a Fontana di fare qualche nome di persona e luogo. “Esistono grandi incisori contemporanei: Lucio Passerini, che opera a Milano; Andrea Lelario, calcografo, e Francesco Parisi, xilografo, con una capacità tecnica eccezionale. Se devo scegliere un luogo prediletto per l’incisione oggi in Italia, eleggo a luogo dell’anima il Museo Adolfo De Carolis a Montefiore dell’Aso, in provincia di Ascoli. Uno spazio dedicato al più grande xilografo italiano del Novecento, che dovrebbe però essere oggetto di profondo ripensamento museale”.
AGOSTINO ARRIVABENE, IL MID CAREER
Un catalogo del 2001 a cura di Alberto Agazzani, Agostino Arrivabene. Incisioni 1988-2001, compie un excursus tra le opere di Agostino Arrivabene (Rivolta d’Adda, 1967), che ancora oggi incide. “Il mio primo approccio con questa pratica”, racconta Arrivabene, “partì proprio dall’ex-libris, quelle piccole lastre impiegate per personalizzare i libri di alcuni miei collezionisti bibliofili. L’amico e mentore Gian Franco Grechi, scrittore e raffinato collezionista, bibliofilo e grande studioso di Stendhal, nel lontano 1993, quando lo conobbi, era direttore del fondo stendhaliano Bucci e mi spinse a cimentarmi sin da subito in incisioni di formato ridotto. Mi invitò a osservare le piccole e raffinate incisioni a bulino di Albrecht Dürer: il ciclo della passione di Cristo ancora oggi riesce a commuovermi per la sua perfetta costruzione, dall’impaginazione delle forme umane, tutte espressivamente connotate, fino ai moti dell’anima che si manifestano con una tale verità da disarmare il più spietato degli atei”.
I punti di riferimento di Arrivabene sono i maestri Albrecht Dürer, Rembrandt van Rijn, Giovan Battista Piranesi, Jean-Pierre Velly e la maggior parte delle sue incisioni sono acqueforti: “Ispirandomi ai segni di quei bulini, ho tradotto in acquaforte le mie immagini; ho sempre preferito un metodo indiretto, ovvero l’uso degli acidi per creare il segno sul rame, perché più controllabile nei tempi di mordenza: sono riuscito a trasmettere alla tecnica dell’acquaforte il camuffamento del bulino. Ho sempre cercato di modulare le morsure dell’acido in sincrono con i chiaroscuri dei segni e delle forme; in questo modo mi è stato possibile, nel piccolo formato e con la conseguente concentrazione, essere più ossessivo nel microdettaglio, cifra stilistica che mi contraddistingue”. E Arrivabene prosegue: “Mi muovevo in una dimensione spaziale estremamente ridotta in cui lo sguardo poteva spostarsi senza far mutare gestualità al polso della mano, che agisce con movimenti minimizzati sulla lastra e, utilizzando minutissime punte rubate a siringhe, riuscivo a ottenere uno sfumato composto da segni impercettibili a occhio nudo. Oggi con l’acquaforte sto ricercando nuovi metodi d’azione: formati più grandi della matrice metallica, nuove modalità di scavo con traiettorie nevrotiche e più sincopate, morsure meno controllate che creano solchi più ampi, come letti di fiume per accogliere l’inchiostro più nero. Questo è un esercizio liberatorio della memoria più inconscia, un atto casuale che fluttua sulla cera annerita come un pattinatore in trans narcotica. Il grande formato aiuta ad accelerare e amplificare questo mio nuovo procedere. Oscillando tra i due modi di scrutare il segno inciso (formato grande e formato ridotto), sono giunto a vere vertigini di lettura alterata della scala visiva di un’immagine”.
L’incisione più rappresentativa di Agostino Arrivabene è Il seminatore (2013), la cui lastra è andata perduta. Restano solo cinque esemplari dell’opera, tra cui il bon à tirer. Perché è così cruciale questo lavoro per l’artista cremonese? “Oltre a essere importante per la rarità del numero di tiratura dei fogli, lo è anche per il procedimento tecnico. La lastra era una vecchia lastra da lattoniere oramai martirizzata dal tempo, dalle abrasioni per sfregamento; sulla superficie c’erano segni di interferenze che mi hanno aiutato a costruire l’immagine. I segni, nel primo stato, erano un pulviscolo caotico, piccole cicatrici del tempo che attendevano di essere riscritte col metodo automatico di leonardesca memoria. Ne ‘Il trattato della pittura’, Leonardo Da Vinci fa menzione dell’aiuto che le macchie e le forme casuali in natura possano offrire, stimolando la mente dell’artista che scorgerà nuove forme a partire da quelle caotiche esistenti. Ritengo questo modo di procedere un metodo di affioramento delle forme quasi per divinazione, il cui risultato rimane sempre avvolto dal mistero delle sacre immagini acheropite”.
Conclude Arrivabene: “Oggi l’incisione ha perso il senso della sua funzione originaria, può solo avere possibilità di esistenza e resistenza diventando un nuovo codice di linguaggio, anche scevro dalla funzionalità di opera per stampa editoriale. Ritengo che l’incisione originale raggiunga, attraverso la tecnica del monotipo, la summa della sua possibile futura autonomia. Ho utilizzato il monotipo nelle tecniche calcografiche addirittura in pittura, dipingendo su lamine di metallo o plastiche, poi trasferite su tela per contatto pressorio. Devo all’incisione originale soluzioni tecniche che mi hanno permesso di trovare nuove strade per la pittura”.
‒ Silvia Scaravaggi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #46
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