Celebrare la libertà. Colloquio di viaggio con Daniel González
Parola all’artista argentino attualmente in mostra alla galleria Boccanera di Trento.
Present Monuments è la mostra personale dell’argentino Daniel González (Argentina, 1963) alla galleria Boccanera di Trento, un’esplosione di colori, bandiere, donne picassiane e scintillanti paillettes. Qui pubblichiamo parte dell’intervista introduttiva al catalogo, presentato lo scorso 6 dicembre, nella quale González racconta di come nascono le sue opere, di memoria personale e collettiva, di rivendicazioni e di libertà. La mostra Present Monuments è visitabile fino al prossimo 2 febbraio, in parallelo con The hanging gardens dell’americano Jared Deery.
Cosa celebrano i tuoi Present Monuments?
Sono monumenti agli stati d’animo. Di solito il monumento è la celebrazione di un evento o di un personaggio storico, che però rimane isolato rispetto alla nostra contemporaneità. Nella nostra società l’idea che ha dato vita ai monumenti spesso si perde, o rimane molto lontana. Prendi ad esempio la conquista della libertà, da parte di Garibaldi, del Risorgimento, o la liberazione dalle dittature: sono tutte cose che ricordiamo, ma che si confrontano con la nostra libertà attuale e lì c’è un gap, una distanza. Il monumento ti fa pensare a una libertà conquistata decenni, magari secoli fa, ma la tua libertà personale deve fare i conti con tutta una serie di fattori, come ad esempio l’indipendenza economica. E non c’è un ponte fra il tuo desiderio di libertà e quello comunicato nel monumento. Io non voglio togliere nulla ai monumenti, che sono importantissimi e celebrano le battaglie per le quali l’umanità ha combattuto per costruire passo passo la civiltà, ma voglio celebrare gli umori, gli stati d’animo, le condizioni che influenzano le persone nel quotidiano. Hai dormito male, sei incavolata, dici “sono finiti i soldi”, oppure sei felice, e allora dici “nice”. Sono cose che si ripetono così tanto, come l’idea di libertà: l’umanità pensa di essere libera, ma la libertà non è solo un ideale, è qualcosa di cui si ha bisogno tutti i giorni, e quindi questo desiderio di libertà lo fermiamo, lo ricordiamo, così che sfugga al temporaneo, diventi un momento più lungo.
La libertà è un tema che torna spesso in alcune delle frasi che si leggono sulle opere in mostra. “Mai più gratis”, ad esempio, nel quotidiano è un’affermazione di libertà.
Oppure “me ne sbatto”. E guarda caso che tutte le frasi che hanno un significato di rivendicazione sono associate a ritratti di donne. Sono ritratti che usano lo stile di Picasso come riferimento alla perturbazione psicologica, e c’è un solo uomo presente, che dice “sognando il mare”, una frase che non ha nessuna connotazione di protesta o cambiamento. Il resto sono donne, che vivono situazioni in un qualche modo insopportabili, di oppressione o di mancanza, per esempio della libertà o dei diritti.
Una cosa che mi ha colpito, e te ne ho parlato anche in mostra, è come hai usato Picasso: hai trasformato la sua pittura da qualcosa di molto mentale, nel senso più “maschile” del termine, e l’hai trasformato in qualcosa di molto femminile, a cominciare dalla tecnica, dalle paillettes…
Bravissima! L’ho rovesciato. L’ho usato: nelle sue donne era introiettato un punto di vista maschile, mentre io ho usato una manualità tipicamente femminile, come femminile è l’idea di rivendicazione. Ho rovesciato il significato!
Anche le tue architetture effimere si legano a un universo molto femminile, perché trasmettono un’idea di casa come insieme di ricordi. E la casa è stata per secoli dominio delle donne.
Ora le cose stanno cambiando, ma nella storia è stata prevalentemente la donna a stare a casa, e a creare la memoria: l’uomo andava in guerra, faceva cose che non erano memoria. La memoria familiare è matriarcale.
E il ricamo, che tu usi tanto, è un atto di memoria collettiva…
Sì, se tu pensi a tutti i lenzuoli fatti per i corredi, le tende, i fazzoletti, che venivano tessuti dalle donne per fermare un episodio importante, come ad esempio un matrimonio. E infatti nelle mie opere tutte le frasi di rivendicazione sono cucite a mano sulle bandierine delle feste, quelle che si usano per i compleanni, ed è un modo per celebrare quelle parole, non solo denunciarle. “Me ne sbatto”, “mai più gratis” sono frasi che celebro perché conducono alla coscienza di quello che deve cambiare.
E quindi, secondo te, i cambiamenti del nostro mondo sono, in un certo senso, nelle mani delle donne?
Assolutamente sì, ne abbiamo bisogno! Abbiamo bisogno del punto di vista femminile. Il mondo si sta aprendo al punto di vista femminile. La civiltà tradizionale in cui l’uomo teneva in secondo piano la donna è finita. Ci sono ancora situazioni e condizioni sociali da cambiare, e per questo ci vuole tempo. Ma il processo è stato avviato e non si può più tornare indietro.
Vorrei tornare all’architettura e farti una domanda che si riallaccia a quella su Picasso, perché anche nell’architettura tu hai, in un certo senso, ribaltato la situazione. Tutto il Modernismo novecentesco ‒ e oltre ‒ ha sostenuto l’idea di un’architettura in grado di influenzare attivamente gli stili di vita di chi la abita. Ma nelle tue architetture effimere è il contrario, è lo stile di vita che influenza l’architettura…
Le mie architetture effimere, in effetti, nascono proprio come le opere di paillettes e i banner, ovvero da stati d’animo. Quello che io introduco nell’architettura è il valore emozionale, la persona. E poi mi ispiro alla vostra cultura, in particolare alle macchine delle feste barocche: architetture effimere e scenografiche che si realizzavano per celebrare un evento importante, un’incoronazione o un giubileo. In queste feste l’architettura era usata per coinvolgere il popolo, per abbattere le differenze sociali.
Io voglio dare la possibilità alle persone di creare, davanti alle architetture effimere, una memoria congiunta, un’esperienza comune che leghi, un convivio. Le mie architetture sono un luogo di partecipazione sociale, uno spazio architettonico emozionale.
Il tuo lavoro è visibilmente sudamericano. È un’affermazione di identità volontaria? Nel senso: hai deciso consapevolmente di mostrare la tua cultura di appartenenza?
Penso in realtà di parlare di situazioni universali. Certo, parto dalle mie basi culturali perché è da dove provengo ed è come penso, è la mia lingua e il mio dialetto. La tecnica lo rende più evidente, ma anche nell’approccio mentale vi è un dato che io chiamo folkloristico perché, come diceva un’amica filosofa, ogni espressione artistica è un’espressione folkloristica, che manifesta il Paese da dove proviene. Io sono convinto che la mia forma mentale appartenga al Sud America, non solo la tecnica, che è tipica sia del Centro sia del Sud America. Anche quando non c’è la tecnica, che è più visibile, la forma mentale non la puoi cambiare, non puoi sfuggire al tuo fatto culturale. Puoi adeguarlo, oggi ho punti di vista che vivendo in Argentina non mi ritroverei ad avere, ma rimango argentino. Non potrei mai dire che sono italiano, il mio sentire è tipicamente sudamericano, quando reagisco, quando mi appassiono…Né meglio né peggio, sono modi diversi di vivere.
Prossimi progetti?
In questo momento sto lavorando al progetto #WhatsupArgentina Mi casa tu casa che inaugurerà il 3 gennaio presso il Museo de Arte Contemporáneo Buenos Aires (MAR) di Mar del Plata. La direttrice Micaela Saconi mi ha chiesto, conoscendo le mie architetture effimere, di realizzarne una per gli spazi condivisi del museo, come la hall. E io ho pensato di creare la casa di tutti, la casa dei sogni di tutti. Così è nata questa idea di creare un numero WhatsApp del museo e invitare la popolazione a partecipare al progetto, mandando dei messaggi in cui racconta qual è la casa dei suoi sogni. Mi sono arrivati centinaia di WhatsApp da gente di ogni tipo: studenti, professionisti, intellettuali, casalinghe, bambini di 4 o 5 anni che vogliono case che volano, case piene di scivoli… Io poi, con la mia sensibilità, prendo le loro idee e realizzo un’opera di tutti. Perché in questo progetto chiunque mandi il WhatsApp partecipa come autore. Il pubblico non partecipa solo quando l’opera è conclusa, ma diventa lui stesso artista. La potenza di questo processo è proprio questa: elevare chiunque alla categoria di artista, e farlo in un museo pubblico.
‒ Sara d’Alessandro Manozzo
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