Italia 90. Intervista a Paolo Canevari
Secondo appuntamento con la rubrica dedicata agli artisti italiani apparsi sulla scena negli Anni Novanta. Stavolta la parola va a Paolo Canevari, classe 1963.
Quale è stata la tua prima mostra?
Feci la mia prima collettiva allo Studio Coronari di Stefania Miscetti nel 1988 e l’anno seguente la mia prima personale a New York nella galleria Wessel-O’Connor. Ero arrivato in città da pochi mesi e avevo venticinque anni, fu un’esperienza fortemente formativa per me giovane artista in cerca di una realtà contemporanea diversa da quella italiana, troppo concentrata, a mio avviso, sulla pittura. Io venivo da una educazione e un’impostazione accademica, cercavo dunque un territorio contemporaneo che non fosse simile a quello che avevo lasciato a Roma. New York rappresentava, all’inizio degli Anni Novanta, una realtà artistica multiforme, era un luogo stimolante e illuminante. Tornato in Italia, cominciai a lavorare in maniera più frequente con le gallerie e le poche istituzioni presenti. La mostra al Centro Pecci, Small Medium Large, è del 1992, ed ero, dei sette artisti, l’unico italiano invitato dalla giovane curatrice Cristiana Perrella. Ora, dopo venticinque anni, è lei la direttrice del Centro Pecci.
In casa hai sempre respirato l’arte: tuo nonno e tuo papà erano artisti. Tu come sei arrivato a capire di volerlo essere?
Sapevo da sempre che quello sarebbe stato il mio destino. Rivedendo il passato con gli occhi del presente, le risposte erano già tutte a mia disposizione; ma all’epoca non avevo coscienza dell’importanza e del significato di una scelta-non scelta che è quella di essere un artista. Penso che artisti si nasca e poi bravi artisti si diventi con un lavoro di logica e una presa di coscienza sui significati concettuali e politici che la scelta stessa comporta. Il fatto di avere una famiglia di artisti alle spalle significa anche averla “sulle spalle”, come penso ogni artista italiano porti il peso della storia e la tradizione. L’America in questo senso è, nella sua ignoranza, un Paese più libero e scevro dai rapporti conflittuali che rappresentano il passato e la storia dell’arte.
Negli Anni Novanta quali erano, secondo te, le principali differenze tra Milano e Roma nell’ambito dell’arte contemporanea?
A Milano c’era un malcelato razzismo nei confronti degli artisti romani, in parte giustificato dal fatto che Roma era stata per anni all’avanguardia, ma in maniera accentratrice e arrogante; questo si amplificò oltremodo con l’atteggiamento reazionario della Transavanguardia e della pessima pittura degli Anni Ottanta e Novanta. Per gli artisti romani della mia generazione era un percorso complesso e difficile riuscire a guadagnare visibilità, da una parte c’erano le gallerie romane legate al mercato e alle propaggini della Transavanguardia e dall’altra le gallerie milanesi giovani e più di tendenza che non avevano molto interesse per chi, come me, arrivava da Roma. Milano voleva assumere un ruolo nuovo e più propositivo. I pochi nomi che sono sopravvissuti a quel periodo sono quelli che hanno cercato altre possibilità all’estero: penso a personalità di spessore internazionale come Bruna Esposito. Poi non va dimenticato che i musei in Italia erano un paio, il Pecci e Rivoli, gli altri ancora non esistevano e i giudizi erano esageratamente condizionati dalle uniche due riviste del settore con sede a Milano, Flash Art e Tema Celeste, che decidevano chi era degno di attenzione e chi no. È deprimente rivedere le riviste di quegli anni, c’erano artisti santificati dalla critica e dalle gallerie di cui nessuno oggi ricorda neanche il nome.
E poi sei arrivato a Milano.
Sono arrivato a Milano con una mia prima personale, Colosso, alla Galleria Stein nel 2002. Avevo esposto in collettive negli anni precedenti, ma mai in una mostra personale. Colosso è stata la mia presentazione come artista a Milano; durante l’opening feci una performance in cui, immobile per circa due ore, tenevo sulle spalle una mia scultura realizzata con uno pneumatico rappresentante il Colosseo. La stessa mostra era composta da un’installazione di sculture-Colosseo in diversi formati: entravo a Milano come un artista romano che portava sulle spalle il peso della sua cultura e della sua storia.
Hai trascorso un periodo per te importante a New York. Cosa ha rappresentato? Una parentesi per confrontarti con nuove visioni e sperimentare altro rispetto al tuo percorso?
Direi che ha rappresentato un confronto con una realtà reale. Quello che esisteva in Italia in quel periodo peccava di provincialismo e di una visione miope sull’arte nella sua complessità e importanza. New York, pur con tutti i suoi difetti, era un terreno fertile e incredibilmente stimolante. Decisi dunque, dopo un periodo di qualche anno ad Amsterdam, alla fine degli Anni Novanta, di trasferirmi in maniera più stabile a New York, dove sono poi rimasto fino alla fine del 2015. New York è una città che ha presenze artistiche eccezionali, a livello di persone e istituzioni. Il rapporto è più vero, basato sulla qualità del lavoro e non sulla spinta politica, come invece succede in Italia. Dopo quasi quattordici anni a New York, risiedo a Roma e insegno all’Accademia di Belle Arti. Penso sia importante cercare di dare alle nuove generazioni quello che io non ho avuto da studente e da giovane artista; una visione vera e meno influenzata dalle falsità che affollano questa società.
Nei tuoi lavori ricorreva sempre la romanità (la lupa, il Colosseo, un omaggio anche a Franco Angeli…). Poi sei passato a un lavoro meno simbolico e forse più zen. Come è avvenuto questo passaggio?
Roma rappresenta per me la memoria, i simboli della retorica legata alla storia. Quello che io ho sempre cercato è un confronto con la mia storia, la mia memoria. Appartengo “per privilegio d’anagrafe” a una cultura millenaria, il mio lavoro è una riflessione su questa eredità e su quello che essa rappresenta. Il rapporto con tutto questo può essere a volte un ostacolo, ma è anche un’inesauribile fonte di ispirazione dalla quale un artista trae vitalità ed esempio. Anche, penso, il grande dono del beneficio del dubbio: se cresci con i giganti devi imparare ad avere grandi forze e alte aspirazioni.
È appena uscito un libro di Andrea Camilleri con le tue illustrazioni. Come è stato lavorare con uno scrittore? Quanto spazio ha lasciato al tuo lavoro e come ci si è relazionato?
I disegni pubblicati nel libro I Tacchini non ringraziano di Andrea Camilleri fanno parte di una serie che ho realizzato nei primi Anni Novanta, chiamata Memoria Mia. In quel periodo ero solito disegnare con una penna biro nera, in maniera estremamente libera e senza pormi il problema di descrivere, ma piuttosto di dare forma a dei ricordi, delle figure e delle ombre del mio inconscio. Volevo in un certo senso illustrare me stesso attraverso quelle ombre e lasciarle riaffiorare nel segno come memorie dimenticate. Molti dei soggetti erano animali, alcuni con tratti mostruosi, legati a reminiscenze dell’infanzia, il mio cane, i gatti e anche quel corollario animale domestico che circolava a casa mia e in quella dei nostri vicini e amici di famiglia, i “Camilleri”. Sono particolarmente felice di vedere questi miei disegni in una collaborazione con Andrea, una persona a me così cara e importante. Conoscendolo, infatti, da quando ero bambino, i suoi racconti sono una parte integrante dei miei ricordi, riviverli attraverso le sue parole è bello ed emozionante. I disegni di Memoria Mia sono stati scelti proprio per la ragione di un passato comune tra due autori, molto diversi come generazioni ed esperienze, ma che hanno condiviso parte della loro vita. Due autori che hanno scelto per esprimersi due linguaggi: la scrittura e l’arte visiva, ma questa volta la storia è condivisa.
‒ Arianna Rosica
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