Danni, violenze e familiarità. Intervista a Silvia Giambrone
Parola all’artista in mostra negli spazi romani dello Studio Stefania Miscetti.
Allo Studio Stefania Miscetti di Roma, fino a gennaio 2019, va in mostra Il danno, seconda personale di Silvia Giambrone (Agrigento, 1981) presso gli spazi della galleria capitolina. Una serie di opere inedite ‒ lightbox, sculture e collage ‒ realizzate appositamente per l’esposizione. Ne abbiamo parlato con l’artista.
Partiamo dal titolo, inquietante suggestivo e per certi versi rivelatore: Il danno.
Questa mostra vuole parlare del danno non come lesione fisica o visibile, ma enfatizzarne gli aspetti sotterranei, sussurrati, e non per questo meno determinanti per colui o colei che lo subiscono.
Viene in mente il celebre romanzo di Josephine Hart (poi soggetto del film di Louis Malle). È stato per te fonte di ispirazione?
Sì, c’è una frase del film che dalla prima volta che l’ho visto non mi ha mai abbandonata e che trovo importante per il mio lavoro: “Chi ha subito un danno è pericoloso perché sa di poter sopravvivere”. Ritengo, infatti, che la violenza sia qualcosa di molto articolato, come bene suggerisce la citazione. Il danno accade dentro, si fa largo e lo si porta con sé come un abito che nel tempo si sostituisce alla pelle.
Una condizione senza via d’uscita?
Non direi, anzi, tornando alla citazione, penso che sopravvivere al “danno” consenta di scoprire in sé una forza insospettabile. Il danno offre la possibilitàà di guardare in faccia l’abisso e trovare nuova misura di sé e del sistema al quale si appartiene. I greci dicevano: “Poiché videro l’abisso, conobbero la misura”. Sono fermamente convinta che esistano molte forme di resistenza psichica e che l’energia da cui si viene investiti possa essere trasformata e bonificata.
Questo lavoro rientra nella tua indagine sulla violenza domestica?
In realtà quello che mi interessa, più che la violenza, è l’“addomesticamento” alla violenza stessa. Della violenza si parla sempre e solo come qualcosa che si subisce, molto raramente come qualcosa che si esercita. Eppure, se tutti ne siamo vittime, qualcuno di noi dovrà pur esercitarla. Sono interessata a questo tabù, quello di essere, malgrado la propria volontà, il proprio controllo, capaci di assoggettare gli altri, agendo comportamenti che non sono riconoscibili come violenti solo perché fanno parte di una grammatica relazionale a cui si è già talmente addomesticati da non riconoscerli più. Così accade con le cose familiari, dopo un po’ diventano invisibili.
Vale il medesimo discorso per la relazione con l’altro.
Le stesse relazioni hanno dinamiche di potere interne, forme di soggiogamento che divengono codici e strutture, agite e concesse, tanto dalla vittima quanto dal carnefice. Mi interessa come la violenza leghi, costruisca nelle relazioni ponti di una solidità difficilmente raggiunta da dinamiche più sane e considero l’ambiente domestico luogo d’elezione per abituarsi a questi equilibri così ambigui. Nello spazio domestico, tanto concreto quanto psichico, ciò che dovrebbe essere affidabile e familiare si trasforma nel luogo dove mettere in atto una educazione che può sconfinare perfino nella coercizione.
Le tue installazioni in mostra colpiscono per la commistione tra perturbante e ricerca estetica, che fa quasi pensare al das Unheimlich freudiano. Ce ne parli?
Attraverso le mie opere intendo portare alla luce il potenziale violento, crudo e misterioso degli oggetti. Così nascono i Frames e i Mirrors intessuti di spine, e la camera da letto che diviene una icona delle false familiarità che costituiscono l’intimità domestica.
Per mezzo della scultura voglio rendere gli oggetti quello che già sono: ricettacoli di identità, “cose” che si caricano di proiezioni e significati che raccontano la vita di chi li usa, i luoghi che li ospitano, le relazioni che testimoniano.
Sono intrigata da questi oggetti carichi di decorazioni perché mi sembrano raccontare, attraverso una precisa eredità estetica che appartiene alla nostra cultura, una sorta di ideologia delle relazioni, di quello che le relazioni dovrebbero essere, immerse in un territorio fiabesco, tradito dalla grande differenza tra l’immagine di una relazione e quello che la relazione poi rivela di sé. Per scoprirne gli aspetti più autentici bisogna cercare in ciò che di sé è sfuggito all’addomesticamento.
Come nella camera da letto in miniatura del light box Dollhouse?
Dollhouse è stata messa all’ingresso della mostra quasi come fosse una legenda, una piccola mappa della mostra, un manifesto. Un poeta di cui ora non ricordo il nome diceva che gli uomini sono al massimo grado della loro bellezza quando dormono, perché è l’unico momento in cui sono inoffensivi e, aggiungerei, estremamente vulnerabili. La camera da letto è il luogo dell’intimità per eccellenza, quello nel quale ci si ritrova innocenti.
Dollhouse riguarda appunto quella che definisco l’ideologia del domestico. La casa delle bambole è quella che consente la costruzione della casa ideale, della casa perfetta, del gioco alla realtà ideale, quella in cui bellezza e familiarità convivono armoniosamente. La mia Dollhouse, invece, è una sorta di stanza psichiatrica, un luogo nel quale tutto viene osservato, rivelando così gli aspetti più alienati del domestico.
E per quanto riguarda le Icone?
Lo stesso vale nel caso delle Icone, dove faccio una operazione simile con l’introduzione delle spine e il velo di plastica sull’immagine del letto. L’opera si chiama Icona innanzitutto perché ha un canone e poi perché l’icona è l’immagine per eccellenza, l’immagine sacra, quella che si venera. Così l’immagine di quello che le relazioni dovrebbero essere è ciò che spesso viene ricercato e venerato e rappresenta la realtà ideale del domestico, che invece viene qui sconfessata per portarne in superficie gli aspetti più inquietanti.
C’è una connotazione sacrale anche nella scultura Il danno? Con le sue forme femminee dall’accentuato monte di Venere richiama quasi una primordiale dea madre.
Questa è una considerazione interessante alla quale non avevo pensato. In un certo senso potrebbe essere una dea, la dea contemporanea del domestico mai addomesticata abbastanza.
È il busto di una donna che indossa un body post-parto, una guaina sintetica decorata finto francese per recuperare la silhouette ideale persa dopo il parto e che mostra in alcuni punti piuttosto osé questa carne debordante, incontenibile.
Credo che questo sia un tentativo esemplare di addomesticamento del corpo e soprattutto dell’immagine del corpo, in questo caso specifico del corpo della donna, della madre. Quando ho visto questo body per la prima volta l’ho trovato abbastanza osceno proprio perché cerca di “contenere” quel che non si può contenere dentro i canoni di una immagine femminile addomesticata a una precisa idea di bellezza. Tutto quel che si contiene troverà una via d’uscita. Così anche la carne resiste.
Accanto alla scultura incombe una sorta di specchio, considerato fin dalla antichità il simbolo dei simboli, riflesso figurato degli archetipi o, se vuoi, dell’inconscio collettivo, passando per la teoria lacaniana. Qual è il significato che tu hai voluto dargli? Che materiali hai utilizzato per realizzarlo?
Avevo giù utilizzato le sublimi spine dell’acacia spinosa per altre opere, sono diventate una cifra identitaria del mio lavoro, hanno un aspetto molto ambiguo, sembrano quasi ossa, minerali, sono pericolose ma hanno molta grazia. Le avevo utilizzate nella scultura Senza titolo con spine, inserite dentro una forma di plastica che univa gli scheletri di due sedie da salotto, per rappresentare le tensioni domestiche che diventano il legante della relazione e che però non hanno un nome, che abitano la casa e ridefiniscono gli spazi. In Mirrors e Frames quelle stesse tensioni, quelle forze che attraversano il domestico, permeano anche lo spazio del sé e lo spazio della memoria, diventando così specchi e portafotografie.
‒ Lori Adragna
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