Profeti in patria. Quattro artisti a Trento

Galleria Civica, Trento ‒ fino al 3 marzo 2019. Luca Coser, Rolando Tessadri, Laurina Paperina e Christian Fogarolli rilanciano l’attività dell’ADAC ‒ Archivio trentino Documentazione Artisti Contemporanei. Con una mostra che punta l’attenzione sulle loro origini.

L’adagio inesorabile che recita “nemo propheta in patria” non vale per il Trentino, almeno non per le istituzioni museali come Mart ‒ Galleria Civica di Trento, che sotto la guida di Gianfranco Maraniello recuperano la buona pratica nata con l’ADAC (Archivio trentino
Documentazione Artisti Contemporanei), voluto circa vent’anni fa da Gabriella Belli e fondato dall’intellettuale Diego Mazzonelli per documentare l’attività di oltre 500 artisti attivi in Trentino. Oggi è gestito da Gabriele Lorenzoni, curatore di una rinascita che prende avvio con la pubblicazione di quattro monografie dedicate al lavoro di altrettanti artisti trentini affidati alla lettura di critici d’arte giovani e abbinati secondo criteri di rilevanza, ma anche mischiando un po’ le carte per consentire effetti di scoperta e di reinterpretazione del lavoro di personalità che, pur maturando carriere internazionali, mantengono lo studio nella provincia a statuto speciale. Si esalta in tal modo l’artista come risorsa culturale, in un territorio sprovvisto di grandi metropoli ma dotato di una rete di cittadine popolate di musei locali, kunsthalle, conservatori e teatri in piena attività.
In questo caso, le quattro monografie danno vita a una quadruplice mostra personale che attraversa tre generazioni esponendo i lavori di Luca Coser, Rolando Tessadri, Laurina
Paperina e Christian Fogarolli, accompagnati da testi critici, rispettivamente, di Carlo Sala,
Matteo Galbiati, Chiara Agnello e Lorenzo Benedetti.

Luca Coser, Applause, 2018. Courtesy l’artista

Luca Coser, Applause, 2018. Courtesy l’artista

LUCA COSER

Ex Post (titolo di una mostra che procede a ritroso, dal “catalogo” all’esposizione) si apre con i grandi dipinti di Luca Coser (Trento, 1965), elaborazioni di memorie personali sulla scorta di emozioni cinematografiche che, con un sapiente lavoro di cancellatura e astrazione, trasformano l’immagine in vibrazione, quasi in un rumor bianco, dove l’evocazione ruba la scena alla rappresentazione usando una palette di colori tipicamente italiana, tratta dal Masaccio: sono colori che partono dal grigio come base, attenuati, pastosi e lievi come un ricordo che si fa sempre più evanescente nel tempo.
Nell’opera Le forme commoventi (2016), il ritratto di quattro soldatini di piombo assume il senso di una presenza-assenza che da sempre connota la pittura intellettuale d’ispirazione letteraria e cinematografica dell’artista trentino docente a Brera. L’opera (apparsa in una delle copertine d’autore de La Lettura del Corriere della Sera) dialoga con altre grandi tele, alcune delle quali divengono astrazioni pure grazie a procedimenti di ingrandimento e di cancellatura, e con un “ammasso” di opere su carta e tecnica mista esposte liberamente su un tavolo da lavoro come tessere sedimentate di un pensiero per immagini che procede per sintesi successive.

Rolando Tessadri, Tessitura n. 01 02 03 04 05 06 07 08, 2018. Courtesy l’artista

Rolando Tessadri, Tessitura n. 01 02 03 04 05 06 07 08, 2018. Courtesy l’artista

ROLANDO TESSADRI

Nelle sale che seguono, i ritmi del blu e del grigio ci introducono nel canone della pittura analitica e del color field di Rolando Tessadri (Mezzolombardo, 1968). Le sue Tessiture, che rappresentano un lavoro ossessivo protratto nei decenni, esprimono il piacere di una texture che sposa la forma di una griglia fitta come la trama di un tessuto. Questi elementi compostivi si affiancano a uno studio meticoloso dei colori e delle loro luci. La ripetizione diventa l’orizzonte concettuale di una pittura che in Italia è tornata all’onore delle cronache grazie alla ricezione di un senso che sembrava perduto per sempre: quello di continuare a ripensare lo statuto della pittura (del suo essere e del suo fare) al di là, e malgrado, le dichiarazioni di morte e di resurrezione che la moda dell’arte alterna nei decenni. Il ritmo è un altro aspetto portante di un lavoro che trova nell’allestimento dei quadri una forte connotazione installativa e apre all’infintudine di una pittura che si fa schermo opaco, grado zero risonante: una specie di materia oscura che, pur annullando la visione, non ne annulla la forza magnetica.

Laurina Paperina, End of the Show, 2017. Collezione privata

Laurina Paperina, End of the Show, 2017. Collezione privata

LAURINA PAPERINA

Tutt’altro segno assumono invece le sale dedicate ai video, ai dipinti e alle sculture di Laurina
Paperina (Rovereto 1980), esponente di un’arte irriverente e graffiante che appare come una sintesi tutta italiana di Banksy, dei muralisti messicani, di Bosch e dei cartoon americani firmati da Matt Groening o di South Park. Di quest’ultimo capolavoro politically uncorrect dell’animazione engagé statunitense (cui sono stati dedicati alcuni studi) Paperina sembra assumere lo stile pulp (ricordate? “Sangue e merda…”) negli irresistibili video animati dedicati agli artisti del Novecento: un’ecatombe splatter di personalità (da Nam June Paik a Hirst alla Abramović) che in pochi secondi vengono uccise dalle proprie opere più famose. Nei dipinti boschiani, invece, la concentrazione di personaggi dei cartoon determina agglomerati di figure improbabili dalle forme più strane: spugne parlanti, groviere, salsicciotti, commistioni di animali ridenti e uomini decapitati. Nell’infantile iconografia di Paperina sembrano rivivere i nuovi grifoni e le gorgoni di un bestiario “ad usum Delphini” ma di segno rovesciato, in cui Eros e Thanatos sono esorcizzati da una ilarità slapstick, dalle allegre espressioni dei personaggi e dai colori sgargianti da Luna Park che allontanano la paura da quei fanciullini che siamo o siamo stati. Ma vi si riscontra anche il riflesso di un’epoca e di una cultura visiva dell’animazione che negli Anni Novanta è diventata mutante e transgender (e non solo nel senso di generi sessuali, ma anche di generi naturali e culturali), capace di parlare ai grandi come ai bambini. Paperina, in questo senso, è artista figlia del proprio tempo, narratrice di quel mondo ormai esploso della “fantasia al potere” (eco di un ’68 tradito e/o realizzato), in grado di occupare lo spazio protetto, e un tempo chiuso, dell’animazione per bambini.

Christian Fogarolli, Stone of Madness. Allégorie de la folie, 2018 (dettaglio). Courtesy Galerie Mazzoli

Christian Fogarolli, Stone of Madness. Allégorie de la folie, 2018 (dettaglio). Courtesy Galerie Mazzoli

CHRISTIAN FOGAROLLI

Christian Fogarolli (Trento, 1983), invece, presenta una serie di lavori inediti e site specific che sfruttano la forza evocativa della scultura classica, della sua rovina che nei secoli ha prodotto smembramenti del corpo umano (metafora del relativo smembramento psicologico), posti al centro di tre sale ognuna delle quali ospita un’installazione imperniata sui temi principali della sua poetica: da una parte il mistero della devianza, dell’anormalità e della follia, affrontata da sempre come materiale archeologico da reperire negli istituti di cura e nei loro possenti archivi; dall’altra, il tema della percezione e delle im-possibilità molteplici della visione. Così un busto antico crolla su un quarzo che, illuminato da raggi ultravioletti, si accende come una brace: rappresenta una nuova declinazione che l’artista, già invitato a documenta 13 a Kassel, applica al motivo ricorrente della Stone of madness, la pietra che si pensava (da Aristotele al Medioevo e perfino nel Rinascimento) fosse dentro il cervello di ogni malato di mente. Di formazione archeologica, Fogarolli riporta in vita due toelette del museo che erano state murate e le usa come un palcoscenico sul quale installa due performance: un uomo e una donna fanno danzare due torce sul proprio corpo, protetti da specchi-spia in grado di celare o svelare le due figure in base ai rapporti luminosi tra esterno e interno. Chiude la mostra un’opera che è risultato di un processo di stampa ai sali d’argento su marmo di Carrara: s’intitola Midòlla (2017) e, come una stele o una stampella, porta su di sé il calco del midollo spinale di un paziente d’ospedale psichiatrico. La foto è stata tratta dagli archivi e usata dal giovane artista come il reperto archeologico di una civiltà, la nostra, che forse, come ci hanno indicato Michel Foucault o Alda Merini, non ha ancora davvero perforato quella membrana in grado di svelarci i misteri e le forze della mente: interrotta o meno che sia.

Nicola Davide Angerame

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Nicola Davide Angerame

Nicola Davide Angerame

Nicola Davide Angerame è filosofo, giornalista, curatore d'arte, critico della contemporaneità e organizzatore culturale. Dopo la Laurea in Filosofia Teoretica all'Università di Torino, sotto la guida di Gianni Vattimo con una tesi sul pensiero di Jean-Luc Nancy, inizia la collaborazione…

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