Trasformare lo spazio in tempo. Intervista a Giacomo Costa
Gli innovativi videobox e il primo disegno a matita animano la mostra dedicata a Giacomo Costa dalla galleria genovese Guidi&Schoen.
Giacomo Costa (Firenze, 1970) colpisce ancora. Ogni volta che lo si (ri)vede, a ogni sua nuova mostra, qualcosa si aggiunge alla sua visione complessa e attuale del paesaggio. È uno di quegli artisti in costante divenire, che, tassello dopo tassello, amplia e dilata la propria dimensione e, insieme, perfeziona il proprio codice, costruendo un lessico originale. Adesso, dopo i primi Agglomerati del 1996 e diversi capitoli della stessa storia – gli Orizzonti del 1999, gli Atti del 2006, i Gardens presentati alla Biennale del 2009, i Landscape del 2012 –, tutto si trasforma ancora.
Nel progetto TIME(e)SCAPES le sue opere prendono nuova vita, nel senso letterale del termine, perché l’immagine stacca – escapes, fugge – dalla dimensione dello spazio – land(scape), paesaggio e territorio – per farsi anche tempo – time. Il passaggio è impercettibile, ma sottile: i videobox del 2018, come l’artista definisce con un neologismo le sue opere in movimento, affermano l’ibridazione dei lightbox con i videomonitor. Si tratta sempre di qualcosa che divora se stessa all’infinito, di non identificabile a priori, ma solo dopo attenta osservazione o quieta contemplazione. La rappresentazione in forma di frame cambia lentamente, perlopiù ogni 10 secondi, e il soggetto continua a trasformarsi anche per ore (da 5 h 20’, 1.920 frames x 10”, di Timescape n.14 a 1 h 15’, 450 frames x 10”, di Timelapse n.2).
Il loop non rivela la trama di un racconto ideale trasmesso dall’artista, ma illude piuttosto chi guarda che qualcosa accada, in un costante divenire. Assistiamo, in estremo silenzio, a crolli di edifici (Timescape n.12 e n.13), ribollii di acque dense come magma (Timescape n.2), corrugamenti di lande deserte (Timescape n.4), spaccature di crosta terrestre (Timescape n.5), escrescenze geologiche (Timescape n.6), innalzamenti di montagne a forma di iceberg (Timescape n.7), eruzioni vulcaniche (Timescape n.10), sprigionamenti di gas naturale (Timelapse n.2) e annientamenti di resti architettonici da parte della vegetazione (Timelapse n.8).
MONDI MOSTRUOSI E AFFASCINANTI
L’immagine, bellissima e minuziosa, alla fine, si ricompone e il ciclo delle sequenze riparte, tenendoci avvinti a mondi mostruosi, quindi affascinanti (in) quanto terribili. L’istantanea fotografica si dispiega in un ante e post quem, che del cinema relativo a futuri distopici richiama alcuni scenari, da Blade Runner a Matrix, dalla Capitol City di Hunger Games al Labirinto di Maze Runner. Si dà merito all’artista di saper tenere in tensione lo spettatore, tra un senso di vertiginosa caduta e una possibilità di ricostruzione, tra un chaos primigenio e un kosmos faticosamente riacquisito.
Sulla mostra personale aperta a ottobre nella galleria Guidi&Schoen si è innestata, poi, a fine novembre, la collettiva Carte d’identità, in cui Chico Schoen ha invitato Giacomo Costa a presentare, come gli altri artisti, un disegno. A lui suonava come una strana cosa, ma ha superato – bene e coerentemente – la prova. Nell’occasione lo abbiamo intervistato.
L’INTERVISTA
In questa mostra esponi un’opera a matita: è la prima con questa tecnica?
Sì, è davvero il mio primo disegno analogico, un bozzetto su carta richiesto dal gallerista, un trittico che ho intitolato Studio per atmosfera. È stata una scommessa con me stesso, che mi è costata una certa fatica.
Da dove nasce, invece, la tua passione per la forma fotografica?
Mio nonno era un super fotoamatore, che assemblava apparecchi fotografici. Io, da bambino, lo guardavo incantato. Poi, alle scuole medie, durante le lezioni di Applicazioni tecniche su questi temi, mi ero reso conto che della fotografia conoscevo in maniera naturale sia la tecnica che la lingua. Intanto, fino a 14 anni ho studiato violino.
Quando hai iniziato a fotografare?
Mi sono iscritto al liceo classico e l’ho abbandonato nel 1986 per dedicarmi al motocross. Poi, a 18 anni, ho incominciato a fotografare in montagna, un ambiente che amo molto. Nel 1990 ho terminato gli studi da privatista e a 22 anni pensavo di fare il fotografo commerciale come lavoro. Per questo sono tornato a Firenze e ho aperto uno studio fotografico.
E il passaggio alla fotografia come arte quando è avvenuto?
A 26 anni, nel 1996, ho fatto la mia prima opera, contaminando la fotografia tradizionale con le tecnologie digitali. I primi paesaggi urbani alterati vennero esposti ad Arte Fiera a Bologna e ad Artissima a Torino. Stava nascendo la serie degli Agglomerati e il n.9 di questi, che ho realizzato nel 1997, è stato acquistato nel 2006 dal Centre Pompidou di Parigi.
Come si è evoluto poi il tuo linguaggio artistico?
Nel nuovo millennio sono passato al 3D: utilizzo tuttora software e programmi tecnologicamente avanzati. Per certi versi, eseguo un montaggio delle mie immagini che può ricordare quello cinematografico, arte che mi ha sempre appassionato, a partire dai classici della fantascienza.
L’uomo è assente nelle tue opere. Perché?
Soltanto apparentemente è assente. L’uomo, in realtà, è il centro. L’abito fa il monaco: utilizzo la città per rappresentare l’uomo, perché si capisce l’uomo dall’architettura e dall’urbanistica in cui vive.
Ad esempio?
Pensa alla gente che viveva sotto al ponte Morandi, a Genova: si deduce come veniva concepito l’uomo in quegli anni. Per questo non ho bisogno di inserire l’uomo nelle mie opere, in quanto la rappresentazione dell’ambiente parla da sé.
Come interpreti il contrasto tra natura e città?
La natura è qualcosa di più grande, è un’altra dimensione di cui siamo ospiti. E l’osservazione di questa dimensione per me è contemplativa: siamo granelli di sabbia perduti in una vastità immensa.
Vince il paesaggio naturale, dunque?
Indubbiamente, anche se in città ci sentiamo creatori, siamo convinti di essere Dio, di poter cambiare tutto, deviare fiumi, traforare montagne, ecc. Nella natura, invece, siamo spettatori.
Tu asserisci che la natura non si può migliorare, ma solo peggiorare.
Sì, per questo la catastrofe, nel suo lato estetico, è molto presente nella mia opera.
La tragedia visiva attira?
Attrae morbosamente, proprio come nella tragedia greca o shakespeariana. I cantieri delle megalopoli sono come catastrofi in divenire. Tuttavia, le mie immagini non sono splatter, ma liriche.
Nelle tue opere tu sei coerente nella tecnica, nella forma e nei contenuti, ma che cosa definisce, secondo te, un artista come tale?
Ho praticato motocross, alpinismo e vela, tutte discipline che richiedono concentrazione e reazione al pericolo: quando sei in mezzo, puoi andare soltanto avanti. Nell’arte ci vuole la stessa testa.
Parli di pericolo, in che senso?
Anche nell’immagine, come nelle discipline sportive che ho citato, io non riesco più a staccarmi: l’arte è un mondo estremo, persino aggressivo. Si rischia di morire dentro. L’artista si mette a nudo, spesso senza essere compreso, per cui servono carattere e grinta, o si è travolti.
‒ Linda Kaiser
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