Pittura lingua viva. Parola a Thomas Berra
Viva, morta o X? Ventiquattresimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Thomas Berra (Desio, 1986) vive e lavora a Milano. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano. Tra le mostre personali recenti: Studio Park Associati, Milano, 2018; Tutti dobbiamo dei soldi al vecchio sarto di Toledo, Spazio Leonardo, Milano, 2018; Verde Indagine, Placentia Arte, Piacenza, 2017; Dopo il diluvio, Villa Vertua Masolo, Nova Milanese, 2017. Tra le collettive: Premio Cairo, Palazzo Reale, Milano, 2018; Iperpianalto, Fondazione Spinola Banna, Poirino, 2018; Stupido come un pittore, Villa Vertua Masolo, Nova Milanese, 2018; Il paradigma di Kuhn, Galleria FuoriCampo, Siena, Studio O2, Cremona, 2018; So Long (Arrivederci), Fondazione Pastificio Cerere, Roma, 2017.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
È lei che si avvicina, che ti seduce, che ti maltratta e poi ti viene a ricercare.
Chi sono i maestri o gli artisti cui guardi?
Guardo tutto, da sempre, sono ingordo di immagini. Ne ho tanti di maestri, per citarne alcuni Mimmo Germanà, Gino De Dominicis, Philip Guston, Piero della Francesca, Enzo Cucchi e Francis Bacon.
Dici spesso che hai una costante “esigenza di fare”. Come si esplicita nella quotidianità del tuo lavoro? Il disegno ne è una manifestazione?
Evitare la quotidianità è il primo compito per non morire. Così come il fare, e fare pittura è scoprire ogni giorno qualcosa di nuovo e diverso. Disegno sempre, non posso farne a meno, una sorta di istinto primitivo. Ed è in questa pratica che mi riconosco di più, dove finalmente riesco a essere sincero e parlare, senza dire nulla. Perché tutta l’arte figurativa è silenziosa e mistica.
Sei molto attento al dialogo tra le opere e lo spazio, come dimostrano l’installazione Casabarata #2 del 2014 per Banca Sistema a Milano o il progetto per Palazzo Mezzanotte a Milano del 2015 o, ancora, la tua personale Verde Indagine da Placentia Arte a Piacenza del 2017. Sviluppi i progetti in relazione all’ambiente che dovrà accoglierli? Prediligi il pieno o il vuoto? Penso, nello specifico, a due tue mostre da Room Galleria, Ciao del 2012, in cui ti concentri sulla scritta e sul font in maniera molto essenziale e pulita, e Thomas del 2015, in cui invece, facendo prevalere l’horror vacui, hai assemblato più di ottocento lavori realizzati nell’arco di otto anni.
Non prediligo nessuno dei due. Assecondo le richieste che ogni lavoro richiede. Mi spiego meglio: i progetti e le idee si sviluppano autonomamente, cerco di non dare dei limiti al processo creativo, se non quelli economici, limiti imposti dall’esterno, come certi doveri richiesti dalla società. Quando un lavoro è per me concluso, trovo la formula migliore per presentarlo. Nascono così mostre dove diventa necessario esibire una catasta di materiali e altre dove la singolarità riesce a evocare altro.
Come si è evoluto negli anni il tuo lavoro?
Spero bene!
Perché in tempi recenti la scelta di concentrarsi su un solo colore, nello specifico il verde?
Nel corso degli ultimi quattro anni tutta la mia attenzione si è orientata su un tema vegetale, descrivere il mondo delle vagabonde, erbacce viaggiatrici che generalmente vengono estirpate dai giardini. La conseguenza è stata quella di concentrarsi solo su un colore, il verde.
Il verde è un colore secondario, ne contiene già due primari e la sua scala di sfumature è talmente ampia che non mi sento di definirlo né unico né secondo a nessuno.
Parlaci quindi delle vagabonde, del mondo vegetale e di cosa abbia rappresentato per te la lettura di Gilles Clément.
Una sera di diversi anni fa, dopo una cena, parlavo con un caro amico, Roberto Gelini, detto Gelo. Si discuteva di diversità, di come il fare pittura in questo momento storico sia un impegno politico. Mi consigliò la lettura dei libri di Clément. Ne aveva una copia con sé, edita da Derive e Approdi. Esistono dei libri in grado di cambiarci. Di smuovere sensazioni fino a quel momento solo percepite. Così è stato per Elogio delle vagabonde.
Figurazione e astrazione: quando finisce una e inizia l’altra?
Boh! Per me sono la stessa cosa.
La dimensione onirica ha posto nelle tue opere?
Assolutamente sì! I sogni sono la parte più importante nel mio lavoro, mi guidano tutti i giorni. Ammiro il lavoro di Federico Fellini, denso di dimensioni sognate.
Quali sono le tue fonti di ispirazione? Letterarie, cinematografiche, musicali…
Ci sono libri, canzoni, ricordi, film, storie, parole, sogni e tante altre sfumature così potenti da restare incollate all’anima una volta assorbite, impossibile restarne indifferenti. Capita così che tutte queste cose alimentino l’ispirazione.
Hai tecniche o formati che prediligi?
Mi piacciono i piccoli formati quando lavoro da seduto e i grandi formati quando dipingo in piedi.
Per il tuo recente intervento site specific allo Spazio Leonardo di Milano hai citato una frase di Tano Festa: “Tutti dobbiamo dei soldi al vecchio sarto di Toledo”. Come è nata l’idea del titolo? E in generale come nascono i titoli delle tue opere?
Tano Festa è un mito! Da tempo indagavo il suo lavoro, la sua vita, poi Marta Barbieri e Paola Bonino, UNA Galleria, mi proposero un progetto all’interno di Spazio Leonardo, il nuovo contenitore di Leonardo Assicurazioni – Generali Milano. Ho deciso così di concentrarmi sulla fine di un uomo e la nascita di un mito. C’è un documentario su YouTube che racconta l’esistenza di Festa. In quei 6.57 minuti ho condensato tutto il pensiero per il lavoro alle Generali. Non mi interessa dare un nome alle mie opere, è come dare indicazioni sbagliate a un automobilista, quello che conta è la suggestione che un disegno o un dipinto possono evocare. Preferisco dare un’identità a un progetto che racchiude tutti i lavori, come in un libro, si dà il titolo al volume, il resto lo si suddivide in capitoli… E poi non scrivo mica poesie o canzoni.
Tornando al lavoro per Spazio Leonardo, come è articolato? Ti sei concentrato sulla superficie, sui segni, sui gesti…
Ho agito per strati, partendo da quello più intimo, il lavoro di Festa, con le sue visioni e i suoi personaggi, passando al segno colore azzurro che tagliava quella dimensione fumosa. Festa confidò a Mario Schifano, prima di morire, di contemplare la morte e che questa era azzurra.
L’ultimo strato era composto da quattro lavori di piccolo formato e una grande tela ovoidale.
Opere di segno, senza soggetto. Come un’evasione dalla figura, solo pittura.
Stupido come un pittore è il titolo di una collettiva cui hai partecipato e che riprende la celebre massima di Duchamp, ti ci ritrovi?
“Bête comme un peintre” (Stupido come un pittore) è un proverbio francese che risale almeno ai tempi di Bohème di Murger, intorno al 1880. Duchamp lo usò per indicarne il senso contrario, la nuova maniera di intendere la figura dell’artista, un pensiero attuale che condivido.
Perché fare pittura oggi?
Perché no?
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Mi piace!
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