Eugenio Tibaldi e l’Abruzzo
Mu.Mi. Museo Michetti, Francavilla al Mare ‒ fino al 10 marzo 2019. Eugenio Tibaldi restituisce la sua interpretazione visiva dell’Abruzzo nella mostra allestita al museo di Francavilla al Mare.
In una lettera inviata al giornalista Scarpitti nel 1971, dopo aver citato la frase che dà il titolo alla mostra personale di Eugenio Tibaldi (Alba, 1977) al Mu.Mi, dal Decamerone di Boccaccio pronunciata dal credulone Calandrino, “Adunque dèe egli essere più là che Abruzzi”, allusione a una regione remota, Ennio Flaiano descrive dell’Abruzzo la “conformazione di una terra isolata, diciamo addirittura un’isola (…); un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere: se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella sono le nostre basiliche, che si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare”.
Isola che, segnata e sovrastata da solenni, liberi e silenziosi monti e dal mare a perdita d’occhio, dai toni, dai vapori dell’atmosfera che l’avvolgono, torna, nell’opera Più là che Abruzzi 04 di Eugenio Tibaldi, per definire, in un’immagine, la regione dipinta sulla tela di un cuscino con le iniziali ricamate. Un’area staccata, dai colori non decisi dall’artista ma risultato di una miscela, unione in percentuale di tinte scelte dalle persone per identificare il proprio territorio, specchio del paesaggio e riflesso di stati d’animo. Sullo stesso tavolo dove poggia il cuscino, oggetti quotidiani, come intarsi, testimoniano la concreta difficoltà della solitudine, all’ombra del profilo delle due “basiliche”, intagliato nei libri di scuola. Abruzzo ma non solo. Ovunque. Là dove a volte il susseguirsi degli eventi può indurre le persone alla convinzione che, scrive ancora Flaiano, “tutto è vanità, ed è quindi inutile portare a termine le cose, inutile far valere i propri diritti; e tutto ciò misto ad una disapprovazione muta, antica, a una sensualità disarmante, a un senso profondo della giustizia e della grazia, a un’accettazione della vita come preludio alla sola cosa certa, la morte: e da qui il disordine quotidiano, l’indecisione, la disattenzione a quello che ci succede attorno. Bisogna prenderci come siamo, gente rimasta di confine (a quale stato o nazione? O, forse, a quale tempo?) – con una sola morale: il Lavoro”.
INCONTRARE L’ABRUZZO
Nel 2019 Tibaldi ha incontrato l’Abruzzo e le persone di confine, consegnando alla sua ricerca e al visitatore un altro punto di osservazione, geografico, artistico e umano, dove i suoi temi guida, i mobili confini del margine periferico, le trasformazioni indotte, il rapporto con situazioni altre, estese e globali, nelle opere presenti al Mu.Mi., si caricano di ulteriori e inediti aspetti concettuali e formali. Un percorso, quello dell’artista, che ora, a distanza di anni, è interessante vedere nel suo insieme come fosse una mappatura in continua evoluzione.
Quasi un unico lavoro, prodotto negli anni, aperto e non finito, che moltiplica gli spazi di riflessione, simbolici e reali. Relazioni da individuare nelle opere, esito di congiunture artistiche e temi emblematici che, lontane da pratiche “neutre di postproduzione”, citazionismi, percorsi documentaristici, descrizioni intimistiche, nella loro risolta, personale, autonomia stilistica suggeriscono punti di convergenza oltre la geografia. Circostanze. Condizioni che si offrono, dunque, all’attenzione dell’artista, sulle quali Tibaldi accende delle luci. Più là che Abruzzi è per ora l’ultima tappa in ordine di tempo. Un tempo che assume un moto differente dallo scorrere lineare e dà alla mostra la possibilità di essere letta come un insieme denso di sfaccettature. Un percorso, quello che s’intraprende, prima di giungere alla destinazione Abruzzi, che attraversa altri luoghi nei quali la densità delle prospettive e delle emozioni declina e riferisce di cambiamenti sempre in atto; dove ponteggi e impalcature reali e metaforiche sono l’espressione di un volume mai immobile o circoscritto. Un volume permeabile al divenire che accoglie testimonianze nelle cose donate (Seconda chance, 2016-2018, quartiere “Barriera di Milano”, Torino) o riflette d’identità geografiche e umane tra stereotipi e confini (Red Verona, 2013, Verona); mette a fuoco la flessibilità, dettata dalla necessità, nell’architettura dei ricoveri occasionali dei senza tetto (Architettura minima, dal 2012 ancora a oggi) e l’informalità dell’abitare (Questione d’appartenenza, 2015, Napoli) o si concentra sul rapporto tra persone e spazi quotidiani (Inclusio, 2017-18, Bologna). Quando poi il visitatore giunge nella sezione di opere realizzate per la mostra Più là che Abruzzi, a cura di Simone Ciglia, incontra il frutto di un progetto di residenza nato dalla collaborazione tra enti pubblici e privati (Associazione culturale Humanitas e Comune di Francavilla al Mare), grazie al quale Tibaldi, oltre a relazionarsi con i fatti, anche recenti, del luogo, ha avuto l’opportunità di incontrare delle persone incluse in un programma di reinserimento formativo, professionale e sociale, della stessa regione.
ARTICOLARE IL MOLTEPLICE
L’esposizione, così, si delinea segnando due tipologie di lavori. In una, il risultato delle analisi e riflessioni dell’artista in merito all’acquisizione dei dati di ordine storico ed economico, ha prodotto significative opere di sintesi, da leggere come fossero pagine di un diario scientifico redatto da uno studioso, dove contenuti oggettivi s’intrecciano con appunti e impressioni-sensazioni. Nell’altra, annotazioni, scrittura, immagini, disegni, inserti di documenti lasciano, letteralmente, lo spazio alle percezioni-emozioni delle persone coinvolte, con opere che trovano la loro definizione a partire dalle informazioni personali restituite in modo anonimo all’artista. Lavori di grandi dimensioni che Tibaldi ha letteralmente e fisicamente cucito vivificando un dialogo, fortemente evocativo tra elementi di varia natura. Dopo aver cercato in modo quasi maniacale suppellettili di ogni tipo, citati e descritti nei dettagli dalle persone, testimoni insostituibili e custodi di preziosi significati personali, li ha utilizzati nei suoi nuclei installativi, al pari di strutture portanti-impalcature, sia dal punto di vista compositivo che narrativo. Opere che si levano come un’unione di voci, prive di forzature stilistiche, consentono al visitatore di ascoltare-vedere esperienze dell’esistere-resistere, al margine di quel limite abitato da donne e uomini tetragoni come le loro montagne, in bilico tra realtà, dignità della sconfitta e possibilità. Lavori poetici, intrisi di esistenze messe a nudo, dove ogni parte è il piccolo prezioso tassello di una vita privata che qualcuno ha deciso, seppure in incognito, di condividere con l’artista come un dono. Ognuna delle installazioni è intreccio di più esistenze che paiono ritrovare forza nel loro essere insieme. Oggetti semplici che potrebbero far parte della vita di ognuno diventano unici là dove rimandi e legami disegnano nuove micro comunità prive di finzioni. Cadute, sofferenze, disagio, dolore o il solo non essere riusciti a mantenere le premesse-promesse di una vita sembrano qui emergere per essere metabolizzate, manifestate e condivise, nel tentativo di oltrepassare il limite del perimetro dentro al quale (ci) si è chiusi. È una mostra intensa, Più là che Abruzzi, di Eugenio Tibaldi. Nessun apparente disordine, nessuna sensazione di realtà deflagrata. Piuttosto opere che articolano il molteplice mostrandolo nel particolare con soluzioni formali mai avulse dal contenuto, risolte in un’estetica, di equilibrio e armonia, che non chiude o attenua le possibilità narrative e nella contiguità degli elementi, assimilati come cifre del linguaggio artistico, nella loro prossimità seppur indotta dall’arbitrario intervento dell’artista, tutto appare (angosciosamente) naturale.
‒ Adele Cappelli
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