La terra è bassa. Dieci spazi non profit in mostra a Sesto San Giovanni
Farmacia Wurmkos, Sesto San Giovanni ‒ fino al 5 marzo 2019. Il dialogo con il territorio e la comunità che lo abita è uno degli aspetti peculiari delle dieci realtà non profit in mostra alla Farmacia Wurmkos di Sesto San Giovanni.
La mostra La terra è bassa, 10 luoghi per 10 progetti, a cura di Alessandra Pioselli, allestita nello spazio di Farmacia Wurmkos a Sesto San Giovanni, è un’occasione preziosa e unica per conoscere più da vicino dieci spazi non profit che da altrettanti anni lavorano in Italia, a diretto contatto con le comunità locali. Da questo incontro è sorta l’esigenza di capire in maniera più approfondita le caratteristiche di tali spazi, attivi in territori caratterizzati da singolari specificità. Se ciò che li accomuna è la possibilità di ospitare gli artisti in residenza, per permettere loro di lavorare a dei progetti concepiti e sviluppati con gli abitanti, esistono tuttavia delle differenze che qualificano i singoli interventi.
Progetto Diogene utilizza il vagone di un tram posteggiato in un’aiuola di svincolo a Torino, come sede per lavorare. Viaindustriae a Foligno è un gruppo misto di architetti, ma non solo, che organizza residenze in manufatti da loro stessi costruiti e svolge inoltre un’attività formativa per gli artisti. In passato ha anche collaborato con Sol LeWitt, che aveva una casa lì. L’allestimento evidenzia in modo efficace le diverse filosofie che sottendono alle attività delle dieci realtà territoriali, con documenti, pubblicazioni, mappe di riferimento disposti su alcuni tavoli ma anche grafici sulle pareti. La mostra è uno spaccato di quell’arte contemporanea non legata al mercato, che in generale è interessato all’opera in quanto prodotto di lusso destinato a un’élite sociale. Anche lo spazio che ospita la mostra contribuisce a renderla ancora più ricca di significati, dato che Farmacia Wurmkos è una delle realtà italiane che in maniera continuativa, da venticinque anni, si occupa di disagio psichico in modo non terapeutico ma liberatorio attraverso l’arte. Ne abbiamo parlato con la curatrice Alessandra Pioselli.
L’INTERVISTA
La prima cosa che mi sono chiesta visitando la mostra riguardava la sua genesi, ovvero se il progetto rispondeva all’esigenza di fare il punto della situazione degli spazi non profit in Italia, oppure se era un modo di rilanciare il tema affrontato in occasione del convegno tenutosi a Breno nel 2017 dal titolo Abitare l’arte. Incontro nazionale di residenze d’artista.
La mia intenzione non era tanto quella di indagare lo statuto o la storia degli spazi non profit, quanto di presentare dei progetti capaci di generare “luoghi” di ricerca connotati da un’elastica dimensione spaziale e temporale. Inoltre, anche se non fondano la propria sostenibilità sulla vendita di opere e posseggono una natura giuridica spesso di associazioni senza scopo di lucro, questi progetti affrontano il tema della generazione di microeconomie, stabilendo eterogenei rapporti con interlocutori territoriali e non.
Hai avuto modo di visitare di persona alcuni degli spazi in mostra?
Ho visitato alcune delle realtà presentate in mostra ma non tutte, per il momento. Mi riservo di farlo in futuro. Non ho ancora avuto modo di andare a Guilmi e a Latronico, ma sono stata a Iglesias nel 2017 e per l’occasione ho tenuto una lezione in piazza nell’ambito della Scuola Civica di Arte Contemporanea, durante una ventosa e calda serata estiva. Un’esperienza inusuale e bella.
Mi sembra che gli spazi scelti abbiano alcuni elementi in comune, come per esempio il contatto con il territorio, e dei progetti concepiti e condivisi con la comunità del posto.
Il tratto che condividono è l’accorto lavoro che nasce dalla conoscenza del contesto, sviluppato nel tempo. Un elemento importante che qualifica questi progetti è la loro estensione temporale, la presenza costante nel territorio che diventa matrice di esperienze in comune. Tuttavia, le relazioni comunitarie sono polimorfe. Come dice Pasquale Campanella, il sociale “non è un corpo liscio e levigato”. Le due giovani e sensibili artiste che hanno fondato Case Sparse in Valcamonica, Francesca Damiano e Monica Carrera, scelgono di parlare di “comunità intermittenti”. Dalle pratiche e dagli approcci teorici emerge in ogni caso una questione che è quella di riconsiderare il territorio come “il vivo scenario di una democrazia”, come scrive Salvatore Settis.
Questi spazi svolgono a tuo avviso anche una funzione educativa? Nel senso che offrono degli esempi virtuosi di come sia possibile arricchire di contenuti non solo la creazione artistica, ma anche di costruire degli immaginari significativi insieme alle persone del luogo?
L’interesse per gli aspetti educativi e pedagogici connota diversi progetti e a vari livelli. Ho già citato la Scuola Civica di Arte Contemporanea, che sta facendo un lavoro significativo di diffusione di conoscenza in un’area che è tra le più economicamente depresse d’Italia, il Sulcis. Tra i progetti strutturati che si rivolgono a pubblici inediti e legati al luogo c’è certamente la Nuova Didattica Popolare, portata avanti da Pietro Gaglianò nell’ambito di GAP Guilmi Art Project. Poi vi è un’ampia area di esperienze che accolgono laboratori con le scuole, workshop rivolti ad artisti e declinati ancora sui nessi territoriali, Collecting People di Progetto
Diogene punta al dialogo crossdisciplinare. L’autoformazione, sostenuta da Progetto Diogene, è un altro tassello significativo del discorso. Non mancano poi in generale delle ricadute positive in termini economici, dato che in alcuni casi le residenze e i progetti generano un indotto virtuoso con la creazione di posti di lavoro, soprattutto quando si tratta di paesi che soffrono dello spopolamento che sta caratterizzando molte regioni italiane.
‒ Maria Rosa Sossai
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