Neovernacolare (III). Antiribellione
In un’epoca dominata dalla dialettica élite versus “la ggente”, l’arte neovernacolare può assumere le sembianze di un’antiribellione. Da cui ripartire.
Per continuare il discorso sull’arte neovernacolare e su che cosa sia tutto sommato l’identità vernacolare, è utile citare un passaggio tratto da Un popolo di formiche di Tommaso Fiore, straordinario viaggio letterario nella Puglia degli Anni Venti. Nel gennaio 1925 lo scrittore e politico meridionalista visita Alberobello, e descrive così ciò che vede, una casa: “La casetta che mi ospita è, non occorre dirlo, una casa di contadini, autentica, ma sembra l’opera meticolosa di Giapponesi. Dovunque, per terra, sui muri intonacati, al palco, splendore di pulizia, di decenza; cuscini bianchi sui cassettoni, tendine nitide per ogni vano, per ogni passaggio; mobili di quercia, porte graziosamente dipinte di grigio, noce e verdino; tutto misura e proporzione, agio, tranquillità” (in Un popolo di formiche, Palomar, Bari 2005, pp. 33-34).
Semplicità, essenzialità; verità, autenticità, purezza (“splendore”, “pulizia”, “decenza”). Singolare è il paragone con il gusto giapponese, sorta di anticipazione di ciò che Goffredo Parise scoprirà sessant’anni dopo con la sua intelligenza acuta ne L’eleganza è frigida (1982). Ma comunque, il senso qui di un’attitudine vernacolare che è parte integrante della vita quotidiana, che si identifica con lo spazio di esistenza, sta in quel “tutto misura e proporzione, agio, tranquillità”: l’autentico risiede in questa dimensione tranquilla, non ostentata, spontaneamente misurata.
L’arte neovernacolare è dunque immediata, comprensibile, non arzigogolata né inutilmente fumosa – ma sofisticata, elegante in modo rustico, e crudele.
Brutale e raffinata, forse – raffinata perché brutale. Rude, anche, senza essere maleducata. Maleducata può sembrarlo magari oggi agli occhi dell’élite, ammesso che ancora esista qualcosa del genere: “maleducata” nel senso che non è soggetta al rigido sistema di convenzioni che regola ogni aspetto della presentazione e della rappresentazione; e nel senso che rifiuta il tipo di educazione richiesto per entrare a far-parte, per oltrepassare il cancello, per essere accettata e riconosciuta e ammirata.
Nel sistema dell’arte, infatti, esiste oggi sostanzialmente una totale separazione dei regimi: chi è dentro non accetta alcuna critica, alcuna messa in discussione (ciò che viene accettato come opera lo è, automaticamente, senza possibilità di dialogo: la presentazione equivale alla validazione dell’esistenza); chi invece è fuori tende a criticare per così dire acriticamente, mette furiosamente in discussione l’intero discorso artistico, senza distinguerlo dall’apparato. Si riproduce in questo modo il meccanismo che si sta sviluppando da tempo nella realtà esterna: élite VS. la ggente.
TRA ARTE E REALTÀ
Allora, un approccio capace davvero di colmare la distanza che si è venuta a creare tra ‘arte’ e ‘realtà’, e di farlo senza intellettualismi né finzioni, in questa fase storica deve sentirsela di evitare ogni cliché, a costo di essere percepito come “retrogrado”, ingenuo, troppo spontaneo, mal costruito, maleducato.
Del resto, in una sorta di singolare e lucidissima profezia, l’aveva già spiegato nel 1993 David Foster Wallace: “I veri futuri ‘ribelli’ letterari in questo paese potrebbero benissimo emergere come uno strano gruppo di antiribelli, guardoni nati che osano in qualche modo rifiutare il ruolo di spettatori ironici e che abbiano l’infantile faccia tosta di essere sostenitori e rappresentanti di una serie di principi privi di doppi sensi. Che semplicemente si occupino dei problemi e delle emozioni poco trendy della vita quotidiana americana con rispetto e convinzione. Che rifuggano dall’artificiosità, da quella forma di stanchezza annoiata che fa tanto ‘in’. Questi antiribelli sarebbero fuori moda, sarebbero sorpassati, chiaramente, ancor prima dell’inizio. Morti in partenza. Troppo sinceri. Palesemente repressi. Retrogradi, antiquati, ingenui, anacronistici. Forse sarà proprio quello il punto. Forse è proprio questa la ragione per cui saranno i veri ribelli del futuro” (E Unibus Pluram: Television and U.S. Fiction, “Review of Contemporary Fiction”, 13:2, Summer 1993, cit. in Luca Briasco, Americana. Libri, autori e storie dell’America contemporanea, minimum fax 2016, p. 33).
Da questa antiribellione ingenua, antiquata, anacronistica occorre forse ripartire, e su di essa riflettere seriamente.
‒ Christian Caliandro
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