Biennale di Venezia. La (scarsa) presenza italiana
Sono solo due gli artisti italiani che partecipano alla mostra internazionale curata da Ralph Rugoff. Sono pochi rispetto alla qualità dei nostri artisti. Perché? Cosa ci manca? Le colpe di un sistema culturale incapace di fare le cose giuste.
La scorsa settimana Ralph Rugoff, direttore della 58. Biennale di Arte Visive di Venezia, ha presentato nell’usuale conferenza stampa che precede la manifestazione la lista degli artisti invitati a partecipare alla mostra internazionale, la quale è per prestigio culturale, per ampiezza dei temi e per l’estrema libertà di cui gode il curatore, una delle occasioni più importanti nella carriera di un artista. Se infatti esporre alla Biennale rappresentando il proprio Paese risponde a una logica in parte politica – dovuta alle caratteristiche della manifestazione lagunare, che sin dalla sua fondazione ha ereditato il format delle esposizioni internazionali inventate nell’Ottocento –, la partecipazione alla sezione internazionale è riservata usualmente alla crème de la crème, all’aristocrazia dell’arte, pur con la consapevolezza che vi sono centinaia di artisti che sono transitati nel firmamento veneziano ma come meteore sono scomparsi dal cielo (discorso analogo si potrebbe fare per Documenta o per quasi tutte le altre grandi mostre numericamente). La mostra – benché non sia infrequente che sia un frutto anonimo, senza sapore o del tutto indigeribile – è comunque anche per il visitatore un’occasione ineludibile per misurarsi intellettualmente, sul contemporaneo, con un tipo di scrittura curatoriale ampia, da grande narrazione, di cui mai come ora abbiamo bisogno.
ARTISTI ITALIANI IN BIENNALE
Gli artisti invitati da Rugoff a partecipare alla sua mostra sono settantanove, di cui due italiani. Apriti cielo. Non c’è pretesto migliore per il mondo del contemporaneo (e per quello della cultura) per dare sfogo alla consueta pratica dei cahiers de doléances, uno dei pochi momenti di reale solidarietà empatica tra i vari attori del sistema. E subito a lamentarci che siamo il Paese organizzatore, che politicamente non è corretto, che non mancano in Italia artisti significativi, ma che anzi sono spesso più bravi degli altri, perché, data la nostra situazione francescana, sanno fare tutto. Le reti sociali erano piene di osservazioni di questo tipo, in parte condivisibili: la scelta di Rugoff, per chi ha ancora dubbi in merito, testimonia proprio quel che non vorremmo sapere: nel mondo internazionale del contemporaneo non contiamo quasi un piffero, a parte le briciole e i casi isolati.
UNA QUESTIONE CULTURALE
Le ragioni sono presto dette: l’Italia non ha una politica culturale riferita a ciò che è prodotto nel presente – discorso analogo si potrebbe fare per la letteratura, la musica o altri settori – e non ha capito che gli Stati non competono solo nella produzione di automobili, elettrodomestici, nella tecnologia o nell’agro-alimentare, ma anche nel settore culturale, arte visive incluse. La concorrenza esiste, cioè, anche in quel campo che, per tradizione, siamo erroneamente abituati a considerare distante da qualsiasi modalità competitiva, mentre i Paesi più avanzati, e anche quelli emergenti, hanno da parecchi anni sviluppato strategie per promuoversi nell’arena globale (invece noi, in buona sostanza, non abbiamo nemmeno un ministero della cultura, ma esclusivamente quello dei beni e delle attività culturali…).
Così, benché non manchino artisti, scrittori, musicisti di valore, il risultato è la nostra marginalità dovuta a un sistema Paese e a una classe dirigente del tutto incapaci di analisi e politiche attive. Inutile dire che la situazione politico-sociale contingente non farà che peggiorare il tutto, se ancora è possibile. Come pretendere, quindi, che Rugoff, o qualche altro curatore, abbia modo di conoscere ed eventualmente apprezzare il lavoro di qualche artista del nostro Paese, se nei luoghi più importanti egli può agilmente entrare in contatto con tedeschi, svizzeri, francesi, olandesi, sloveni o lituani aiutati dal proprio Stato?
LE RESPONSABILITÀ DEL MONDO DELL’ARTE
Non che il nostro mondo dell’arte, va detto, sia privo di colpe. Per le gallerie è evidentemente meno oneroso lavorare con un artista supportato dalla propria nazione, e che quindi presumibilmente avrà più facilmente mostre pubbliche, borse di studio, cataloghi. I curatori tendono a occuparsi di un artista estero per necessità e, forse, per calcolo: promuovere un artista proveniente da un sistema forte è spesso una buona occasione per promuovere se stessi dal punto di vista delle relazioni, e in generale, nei paesi al di fuori dell’Italia, se si è bravi è più facile fare il salto. Molti collezionisti, invece, sono frequentemente esterofili fino al midollo, spesso perché avere a che fare con gallerie o artisti di altri Paesi sembra dare prestigio alle proprie scelte, al proprio gusto o al proprio stile di vita: quante volte abbiamo sentito dire, a sproposito, artista internazionale per dire semplicemente che proviene da un’altra nazione?
Succede quindi che il sistema americano aiuti gli artisti americani, quello francese i francesi, l’inglese gli inglesi, mentre gli italiani aiutano tutti gli altri.
E poi consentiteci una domanda banale. Secondo voi c’è stato qualcuno (nel settore pubblico) che ha individuato degli artisti significativi nel nostro Paese da far conoscere a Rugoff e al suo staff, e si è adoperato per organizzare degli studio visit facendosi semplicemente carico del costo dei viaggi, come normalmente capita in tante altre nazioni?
Siamo onesti. Col nostro sistema culturale e col nostro mondo dell’arte, due artisti al Padiglione Internazionale sono quasi un miracolo.
‒ Daniele Capra
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati