Simboli d’amore e installazioni. David Reimondo a Firenze
David Reimondo è l’autore dell’installazione site specific nel loggiato interno del Museo Novecento, a Firenze. Ne abbiamo parlato con lui. Mentre una sua monografia è in arrivo insieme al nuovo numero di Artribune Magazine.
Uno stralcio di cielo stellato appare nel loggiato interno del Museo Novecento di Firenze: non si tratta di stelle fisse di dantesca memoria, ma di simboli luminosi, dinamici, che richiamano parole d’amore. Nel giorno di San Valentino ha inaugurato la complessa e poetica installazione di David Reimondo (Genova, 1973), a cura di Gaspare Luigi Marcone, dal titolo evocativo: Frammenti di un discorso amoroso, che ci porta direttamente in dialogo con il grande semiologo francese Roland Barthes, primo appuntamento della nuova rassegna Ora et Labora voluta dal direttore artistico Sergio Risaliti per il loggiato del primo piano.
L’opera è un’estesa griglia saldata manualmente ricoperta da 11mila led RGB, più densi verso il centro e più diradati verso l’esterno, che riproducono l’effetto dinamico di semi naturali spazzati dal vento. Reimondo ha studiato il movimento di questi piccoli elementi naturali trasferendoli su “semi” artificiali quali i led, con la pretesa di adattare un monitor alle caratteristiche di un video. Attraverso il suo alfabeto simbolico, nato dall’atto di “de-addestramento” culturale che la sua poetica ha intrapreso da qualche anno, l’artista esplora come i suoi grafemi possano restituire emozioni visive, lavorando con il suo approccio scenografico e multimediale.
Abbiamo raccolto qualche battuta direttamente dall’artista, che ci ha chiarito la natura di questo lavoro.
Frammenti di un discorso amoroso è un’opera complessa che sposa tecnologia, effetti naturali e interventi manuali, quasi artigianali. Perché è interessante questa commistione?
Credo che le scoperte scientifiche e tecnologiche abbiano una velocità tale da superarsi continuamente prima di essere assorbite completamente nei comportamenti del vivere dell’uomo. L’uomo non è ancora preparato ad accoglierle totalmente, a capirle, a introiettarle. Esiste uno iato che istintivamente io cerco di “coprire” o “colmare”, spingendomi a creare un ponte. Quindi provo a utilizzare la tecnologia donandole un’umanità fisica e poetica che guarda anche al passato. Per questo le mie opere sono ad alto tasso tecnologico, ma con un’anima analogica e quasi artigianale.
I semi naturali in relazione con i led che generano significati come particelle sub-atomiche. Stai andando alla ricerca del primo segno originario?
Non lo so. Mi piaceva che questo lavoro avesse un primo impatto molto “romantico” con dei richiami visivi alla nostra cultura sull’argomento dell’amore nel giorno di San Valentino, come appunto un cielo pieno di stelle o di fuochi d’artificio.
La relazione con lo scritto di Roland Barthes si declina invece attraverso i miei simboli che i led disegnano, riproducendo concetti chiave del testo.
Ho cercato però di evitare facili sentimentalismi o immagini stereotipate. Quindi non ho lasciato spazio a immediati simboli come cuori o cupidi…
Dal Premio Terna, che hai vinto nel 2013, sono passati alcuni anni e numerosi progetti. Mi parlavi di work in progress, ma nelle recenti mostre, ad esempio a The Open Box, il tuo approccio che lavora sulla sinestesia attivata dai multimedia è sempre più evidente. Hai trovato la tua misura?
Forse. Sto cercando chi sono, chi è David. In ogni lavoro, visto che cerco sempre di usare materiali e stimoli eterogenei per continuare la mia ricerca, c’è una parte di me stesso che viene fuori in relazione agli altri.
Al di là della ricorrenza di San Valentino, cosa ti ha portato il confronto con il testo di Roland Barthes? Cosa c’entra l’amore con il linguaggio e l’arte?
Ho sempre ammirato le riflessioni di Barthes. Non a caso sono stato invitato anche a una mostra intitolata Mythologies, curata da Roberto Lacarbonara a Palazzo Palmieri di Monopoli nel 2017, che ruotava intorno a un altro celebre scritto dell’intellettuale francese.
In questo progetto fiorentino, voluto da Sergio Risaliti, direttore del museo, si sposano bene sia i significati sia i frammenti per formare un “discorso”. Lavorando da molti anni sul “linguaggio”, è stato stimolante un confronto con un volume come quello di Barthes diviso in capitoli o paragrafi che si possono leggere, smontare e rimontare con relativa libertà. Avevo già eseguito negli anni passati alcuni miei “simboli” che riprendono le definizioni di Barthes come “abbraccio”, “magia” o “cuore”. Ho dovuto però convertire questi grafemi in “immagini in movimento” realizzando un’installazione, una “griglia” o “rete” metallica luminosa lunga circa venti metri. L’opera stessa diviene un luogo di aggregazione.
‒ Neve Mazzoleni
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