Pittura lingua viva. Parola a Manuele Cerutti
Viva, morta o X? Ventinovesimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Manuele Cerutti (Torino, 1976) vive e lavora tra Ghent e Torino. Tra le mostre personali: Motus naturalis, Guido Costa Projects, Torino, 2018; Standing, Waiting, Régence 67, Brussels, 2018; Gleiches zu Gleichem, Wilhelm Hack Museum, Ludwigshafen am Rhein, 2017; Proprioception, Istituto Italiano di Cultura, Londra, 2016; Prove di carisma, 401contemporary, Berlino, 2015; Pause ‒ Vitrine, GAM ‒ Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino, 2014. Tra le mostre collettive: Cosa in sé, Guido Costa Projects, Torino, 2018; Premio Lissone 2018, È strano continuare a pensare che la pittura sia fatta per essere vista, MAC ‒ Museo d’Arte Contemporanea, Lissone, 2018; Spatium, Palazzo Botti, Torre Pallavicina, Bergamo, 2018; Through the looking glass, Palazzo Capris, Torino, 2017; Journey of painting – Autumn, MA2 gallery, Tokyo, 2016.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
La risposta più ovvia sarebbe: “Nei corsi presso l’Accademia Albertina di Torino (1995-2000)”. Ma l’incontro che ricordo più nettamente è avvenuto nel vecchio mattatoio di Moncalieri, situato sulla sponda sinistra del Po: pochi lavoranti in piedi con stivali in gomma su pavimenti di gres rosso, con nelle mani strumenti affilati e tubi gialli dell’acqua. E poi vasche piene d’acqua contenenti teste e grossi grumi nerastri di sangue rappreso: i resti inutilizzabili finivano in una carriola destinata alla fossa degli scarti. Ero lì per studiare i corpi aperti degli animali, riprendendo, con compunzione, un tema di studio che aveva suggestionato grandi maestri della storia dell’arte. Nel corso di quelle visite realizzai una serie, una delle prime che ricordo. Non so se posso dire che è stato un avvicinamento alla pittura, certamente è stato un avvicinamento decisivo all’oggetto della pittura.
Chi sono i maestri e gli artisti cui guardi?
Sono molti, a volte l’intera opera, a volte singole opere. Penso, ad esempio, alle Stigmate di San Francesco di van Eyck; alle variazioni sull’Annunciazione di Beato Angelico; a San Giorgio e il drago di Paolo Uccello e a La Madonna della misericordia di Piero della Francesca; poi tutta l’opera di Brueghel, le nature morte di Chardin; le atmosfere di Friedrich, i ritratti di Velázquez. Ma anche, fra i meno conosciuti, le ombre di Vilhelm Hammershøi; il lunare Mario Reviglione; i marginali e i poveri di Lorenzo Viani; i muri di Rosai. Un’opera che molto mi ha ossessionato e che ho avuto modo di vedere più volte è il San Giovanni Battista di Ercole De Roberti. La considero un vero e proprio “manuale di aridità”.
Come si è sviluppato negli anni il tuo lavoro?
Ho cercato di andare, negli anni, verso un crescente “prosciugamento” del mio oggetto, nella speranza che questo significasse andare verso l’essenza. La difficoltà maggiore si incontra quando l’oggetto appartiene al mondo della quotidianità: in questi casi vi è il rischio di dare adito a forme di “pauperismo”.
Perché la scelta della figurazione?
Indubbiamente, sono un figurativo. Non riesco però a contrapporre questa strada a quella dell’astrazione. Per me l’astrazione è il requisito essenziale della figurazione, si colloca al suo interno: è, detto diversamente, il risultato di quel processo di “prosciugamento” di cui ho detto prima. Ma vi è anche un’altra nozione di figurazione, ed è l’attribuzione, persino a un semplice oggetto naturale, di una forma di “vitalità”, di soggettività… Sicché anche uno sfondo, generalmente relegato nella categoria accessoria, può diventare luogo generativo e acquisire la dignità di figura.
Hai un approccio analitico alla pittura. Con le tue opere vuoi che la pittura torni a parlare di sé, di velature, colore, segno …
Effettivamente presto molta attenzione – un’attenzione che potremmo definire “tecnica”, e che peraltro è comune a vari pittori – agli aspetti da te segnalati. Tuttavia, anziché soffermarmi su questi aspetti tecnici, mi sembra importante segnalare il rapporto tra questa esigenza tecnica e la scelta dell’oggetto da dipingere. Non ogni oggetto, secondo me, sollecita egualmente questa sensibilità, e mi sembra di averlo capito lavorando a una serie di dipinti raffiguranti delle pietre. Non mi era mai successo prima di vedere così chiaramente, così esplicitamente, il collegamento tra certe caratteristiche fisiche dell’oggetto e i problemi della tecnica pittorica: come se la tecnica non fosse qualcosa che esiste a monte, e che è equidistante dagli oggetti, ma fosse, ogni volta, la risposta all’oggetto.
Che ruolo svolge il disegno nella realizzazione delle tue opere?
Per me è una pratica assai più frequente del dipingere, e solo in parte strumentale a questa. È infinitamente meno normativa della pittura, nel senso che può fare a meno di rituali e di luoghi. Svolge un ruolo importante nell’immaginare e nel fantasticare, fino ad andare volontariamente ‘fuori tema’ e persino in opposizione al mio lavoro. Magari, a distanza di tempo, ci si accorge che molti détours facevano parte in realtà di una marcia di avvicinamento.
L’enigma, il mistero, l’ambiguità, una vena di surrealismo hanno sempre caratterizzato le tue opere, sia in quelle in cui la figura umana era centrale sia nelle recenti composizioni di oggetti in cui spesso il corpo è alluso o evocato. Come sei arrivato a questo tipo di narrazione?
Anche qui è stato decisivo, credo, il non essere equidistanti dagli oggetti. Mi è sembrato di capire che un’opzione “surreale” sia presente non in oggetti in pieno funzionamento, o in corso d’uso, ma in oggetti dismessi, in via di emarginazione e rifiuto. Esiste naturalmente anche un surrealismo “verso l’alto”, come in una trasfigurazione, ma a me sembra che sia quello “verso il basso” ad avere più possibilità di cogliere davvero un altro livello di realtà.
Cosa significa realizzare oggi una natura morta? Da dove provengono gli elementi che popolano i tuoi quadri?
Mi rendo conto che molti miei lavori possono venire accostati, in un primo momento, a delle nature morte. In realtà il mio lavoro è invece quello di cercare di cogliere la “soggettività” degli oggetti, il che ovviamente non significa considerarli come piccoli esseri animati alla stregua di esseri umani. Si tratta, evidentemente, di due mondi diversi e separati, che sono tuttavia in grado di rivelarsi reciprocamente, sempre che si dimentichi la loro relazione d’uso, che subordina gli oggetti all’uomo. Liberando i primi dalla loro funzione quotidiana, la soggettività degli oggetti si alimenta sia di memorie della precedente subordinazione, sia di comportamenti originali, cioè non mimetici.
Parlaci di Motus naturalis, tela di grandi dimensioni molto complessa e affascinante che ha dato anche il titolo alla personale da Guido Costa a Torino. Ci hai lavorato due anni. Può essere considerata una summa/ manifesto della tua pratica e poetica?
Motus naturalis rappresenta il punto di arrivo attuale di quella ricerca sulla “soggettività” degli oggetti di cui ho parlato. Gli oggetti ivi rappresentati fanno parte di una raccolta assai più ampia, frutto di innumerevoli ritrovamenti (alcuni reperiti nel corso di passeggiate lungo il Po, particolarmente fruttuose con l’alluvione del 2016). Sono oggetti ‒ spesso parti di oggetti ‒ diversissimi tra loro; un dato comune è, appunto, l’incapacità di svolgere la funzione originaria. Presentati in postura eretta possono richiamare, con esiti surrealistici, l’utopia del mondo visto dal basso.
L’opera Motus naturalis, che ha dato il titolo alla mostra, riprende in parte un modello recentemente proposto (Gilli, 2012, 2016) secondo cui il soggetto antropologico delle origini non era il corpo, bensì le membra: piedi, braccia, occhi, spalle, e così via. Membra che si muovevano, agivano, entravano in relazione con altre, ma solo al servizio di se stesse, non al servizio di un corpo che ancora non esisteva. Motus naturalis è appunto un movimento di questo tipo. I piedi non sono la carrozza del corpo, non servono a spostarlo nello spazio secondo una direzione dal corpo stabilita: questi piedi servono soltanto a portare se stessi, obbediscono solo alla propria soggettività. Motus naturalis è il movimento di un soggetto che non riconosce di dover svolgere alcuna funzione per qualcun altro. L’Età delle membra precede qualsiasi idea di funzione, qualsiasi idea di divisione del lavoro, che sono invece principi essenziali per l’esistenza del Corpo: conta soltanto, per ogni soggetto, il lavoro svolto per se stessi.
Come nasce una tua composizione? In studio? L’osservazione dal vero o la fotografia hanno un ruolo?
L’osservazione dal vero è fondamentale per “conoscere” l’oggetto, vale a dire per stabilire un rapporto pittorico con esso. Tuttavia la fotografia permette di rimasticare, ruminare, su ciò che si è acquisito, e persino suggerisce altre domande da fare all’oggetto.
L’imprevisto, l’irrazionale e l’errore incidono nella definizione di un tuo lavoro?
In effetti mi capita spesso di ri-dipingere, ossia di coprire figure precedenti con velature o altro, senza cancellarne però integralmente le tracce. Credo che alla base vi siano tutti e tre i fattori che dici, e forse qualcun altro.
E la memoria personale, il ricordo?
Conta molto: però, più che la memoria “cognitiva”, quella sensoriale, più informe ma più viva.
Come nascono i titoli delle tue opere?
Certamente contano molto le mie letture, ma non c’è un’influenza diretta. Cerco piuttosto di ricavare suggerimenti da quella specie di “isomorfismo” che mi piace immaginare esista tra il mondo filosofico-letterario che mi sto costruendo e il mondo della rappresentazione e dell’immagine.
Cosa indica il termine Proprioception impiegato come titolo per la tua personale all’Istituto Italiano di Cultura di Londra?
Il termine “propriocezione” riguarda l’insieme delle esperienze sensoriali relative al movimento delle parti del corpo e alla loro posizione nello spazio: in sostanza, una forma “primitiva” e non-concettuale di coscienza-di-sé. Benché sia propria degli esseri viventi, mi è sembrato importante leggere in termini di sensibilità propriocettiva certe “posture” degli oggetti.
Quali sono le tue fonti di ispirazione? Letterarie, cinematografiche, musicali…
Di gran lunga prevalenti le letture (non solo letterarie); a molta distanza il cinema.
Quanto conta per te la tecnica? Hai colori, supporti, tecniche o formati che prediligi?
Agli inizi il problema della tecnica era assillante, come credo sia per chiunque si pone la prima volta di fronte a una tela, a una pagina, a un blocco di argilla. Credevo che l’esperienza avrebbe grandemente ridotto il problema, invece ne ha solo modificato il contenuto, a mano a mano che mi rendevo conto che l’esperienza serve solo a passare da un atteggiamento “applicativo” della tecnica a uno creativo.
Perché fare pittura oggi?
Non so trovare una giustificazione valida “per la Società”. Penso invece che per molte vocazioni “originarie” l’esercizio della pittura rappresenti il campo di atterraggio più soddisfacente, e comunque più vicino ai loro dati interiori.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Penso che sulla scena italiana ci siano buoni artisti che nulla hanno da invidiare ai colleghi stranieri.
‒ Damiano Gullì
Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
Pittura lingua viva#9 ‒ Angelo Sarleti
Pittura lingua viva#10 ‒ Andrea Kvas
Pittura lingua viva#11 ‒ Giuliana Rosso
Pittura lingua viva#12 ‒ Marta Mancini
Pittura lingua viva #13 ‒ Francesco Lauretta
Pittura lingua viva #14 ‒ Gianluca Di Pasquale
Pittura lingua viva #15 ‒ Beatrice Meoni
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Pittura lingua viva #17 ‒ Romina Bassu
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Pittura lingua viva #28 ‒ Pesce Kethe
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