I Manifesti di Julian Rosefeldt. A Roma
Palazzo delle Esposizioni, Roma ‒ fino al 22 aprile 2019. Cate Blanchett dà voce ai Manifesti dell’arte, nella installazione di Julian Rosefeldt.
Il lavoro di Julian Rosefeldt (Monaco di Baviera, 1965), Manifesto, mette in scena i manifesti che hanno segnato il Ventesimo secolo fra arte e pensiero ideologico. Ecco l’imponente sfilata, ci sono tutti i grandi nomi: Marx-Engels, Tristan Tzara, Philippe Soupault, Aleksandr Rodchenko, Guy Debord, Tommaso Marinetti, Boccioni, Balla, Guillaume Apollinaire, Dziga Vertov, Bruno Taut, Antonio Sant’Elia, Coop Himmelb(l)au, Robert Venturi, Vassilj Kandiskij, Franz Marc, Barnett Newman, Wyndham Lewis, Manuel Maples Arce, Vicent Huidobro, Naum Gabo e Anton Pevsner, Francis Picabia, George Ribemont Dessaignes, Louis Aragon, Paul Eluard, Richard Huelsenbeck, André Breton, Lucio Fontana, Claes Oldenburg, Yvonne Rainer, Allen Bukoff, Larry Miller, Ben Vautier, George Maciunas, Mierle Laderman Ukeles, Kurt Schwitters, Sol LeWitt, Elaine Sturtevant, Adrian Piper, Stan Brakhage, Jim Jarmusch, Lars von Trier, Werner Herzog, Lebbeus Woods. Non sono i manifesti integri a essere letti, ma piuttosto i collage dei diversi autori montati intorno alle idee centrali dei manifesti stessi.
MANIFESTI SECONDO ROSEFELDT
Nella mostra al Palazzo delle Esposizioni, il video viene proiettato in simultanea su tredici schermi, ognuno con diverse sequenze. La sfida di rappresentare come altrettanti monologhi quelle tracce brucianti del pensiero del XX secolo che sono i Manifesti delle correnti d’arte e dei gruppi politici si è risolta con la scelta di Cate Blanchett come interprete di tutti i ruoli, scelta felice che fa scatenare l’attrice più attraente e di talento degli ultimi anni in una serie di performance eccezionali. Il piacere del trasformismo e della personificazione è il lato shakespeariano della Blanchett capace di recitare qualsiasi ruolo, dal “Fool” a Lady Macbeth, così come il suo lato clownesco, fra Chaplin e Buster Keaton che qui trova applicazione.
Nella lettura di ogni Manifesto il suo aspetto è completamente stravolto. Ogni sequenza precede la lettura con un’ambientazione insieme realistica e distopica. Il linguaggio lavora per contrasti: si parla di architettura modernista e appaiono i desolanti e gelidi colossi delle periferie intensive. Mentre i Manifesti evocano l’Umanità Nuova, la “Gioventù Splendente” degli anni delle Avanguardie, appaiono non le figure eroiche descritte ma le casalinghe più disperate, i senzatetto più marginali, gli operai più stanchi e depressi dell’oggi. Per rimettere in discussione l’“Eroismo” combattivo e a volte distruttivo delle Avanguardie, Julian Rosefeldt colpisce basso e indica come il vecchio Eroismo sia stato sconfitto dalle diverse direzioni prese dalla storia. Il tono è più sarcastico che ironico, come i Manifesti futuristi recitati come se fossero bollettini di Borsa in un gigantesco ufficio di broker. A volte si sconfina nella parodia, come la rappresentazione di una coreografa (Yvonne Rainer?) che dirige in modo dittatoriale un improbabile “balletto modernista”. Altre volte l’ironia è più calzante, e il bersaglio sono l’art concettuale e il Minimalismo, come l’intervista televisiva fatta in stile talk show dove domande e risposte sono di Sol LeWitt, Elaine Sturtevant e Adrian Piper ma sia l’intervistatrice che l’intervistata sono la Blanchett.
Bellissimo il funerale Dada che cita il famoso funerale di René Clair in Entr’acte, e dove il manifesto è letto con tutta la furia e la violenza dettate dallo scandalo della guerra di fronte a un corteo funebre upper class. La dichiarazione (più New Dada che Pop Art) di Oldenburg diventa una preghiera recitata di fronte al tacchino di Natale, e la Pop Art si presenta live con la sua iconografia dei consumi casalinghi (Brillo, Campbell Soup, Soap Opera) in un pranzo di Natale, preghiera familiare a mani unite davanti a un tacchino arrosto: “Sono per un’arte politica-erotica-mistica, che fa qualcosa di diverso che appoggiare il culo in un museo”, recitato da Cate come un Pater Noster con i bimbi. In un’altra sequenza una maestra/Cate spiega le nuove idee di cinema ai bambini delle elementari: “Non importa da dove prendi quello che prendi, ma dove lo porti”, spiegando che “Niente è originale” e che “L’autenticità è preziosa, l’originalità inesistente”, citando Godard. Più drammatico è il discorso sul Surrealismo/Spazialismo, con Cate burattinaia di malridotti pupazzi e marionette che rappresentano tutti i grandi personaggi delle rivoluzioni del secolo scorso. Il pensiero artistico, modellizzandosi sulle avanguardie politiche, ne ha assunto anche la volontà manipolatrice? È la critica che Rosefeldt sembra proporre. C’è in effetti una volontà di direzione e didattica che oggi non è gradita nel campo artistico.
Ma i Manifesti sono stati scritti fra una guerra devastante e l’altra e nel frattempo crescevano i terribili dittatori che si scontreranno nella più grande delle guerre, e la storia è pesante. Le guerre sono finite come le ideologie, diceva anni fa Fukuyama. Si è visto.
CON CATE BLANCHETT
Il lavoro di Rosefeldt è anche una call to action. Ma il piacere di criticare il passato potrebbe essere minore e maggiore il risalto dato alle idee tuttora valide. Il continuum fra Avanguardia storica e Presente è praticamente indistruttibile, si può abbassarne molto il volume, ma non troppo. L’Avanguardia storica merita molte critiche ma la sua hybris è stata necessaria a produrre i grandi slittamenti culturali in cui oggi viviamo.
Detto questo, Manifesto è un lavoro magistrale, originalissimo e di sicuro impatto anche al di fuori dell’ambito più ristretto dell’arte contemporanea. Una bella presenza di pubblico si avvicendava e affrontava il difficile linguaggio dei video, attratto dal nuovo e dalla presenza affascinante di Cate Blanchett, capace di trasmettere messaggi multipli, positivi e negativi, diretti e sotterranei. Ormai la Blanchett è un fenomeno attorale. Al confronto di questo exploit di Rosefeldt impallidiscono i film convenzionali, ben fatti e “sleek” dell’americano Julian Schnabel. Che senso ha aver lavorato nei linguaggi di confine dell’arte contemporanea per poi entrare nel mainstream anche se di qualità? E che senso hanno i documentari sull’arte che stanno diventando un genere cinematografico e che sono un pallidissimo riflesso delle opere a cui fanno riferimento?
In questo senso Manifesto è un modello d’idee originali e coraggiose e un’apertura al parlare d’arte con il medium video anche nelle forme filmiche e dell’installazione multischermica. Per gli entusiasti consigliamo anche il dvd Manifesto, edizioni I Wonder e Unipol Biografilm, già in circolazione.
‒ Lorenzo Taiuti
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