Venezia e la pittura contemporanea. Una mostra e una conversazione
Il fenomeno della pittura a Venezia, dove ormai è evidente che esista una scuola che sforna talenti. L’analisi in una conversazione fra Thomas Braida, Nemanja Cvijanović, Nebojša Despotović e Daniele Capra, in occasione di “Senza tema” alla galleria massimodeluca di Mestre, in cui i tre artisti già affermati hanno invitato a esporre alcuni colleghi più giovani.
Daniele Capra: Nemanja, quando eri studente hai frequentato a Venezia l’Atelier F dell’Accademia di Belle Arti con il professor Carlo Di Raco, che, vent’anni dopo, ti sei trovato a seguire personalmente come insegnante. Quali differenze hai trovato?
Nemanja Cvijanović: Dai risultati che vediamo oggi, l’Atelier F è il frutto del lavoro relazionale del collettivo artistico generazionale che Carlo Di Raco, con straordinaria devozione, ha curato in venticinque anni. È una presenza collettiva importante che influenza la produzione artistica a Venezia, e che, negli ultimi anni, sta diventando anche un significativo fenomeno nazionale.
D. C.: Il cuore di tutto è quindi il sistema di relazioni che si instaurano…
N, C.: Potremmo dire che l’Atelier F è un artista collettivo, con criteri relazionali ed estetici propri che sono il risultato di coloro che hanno contribuito a costruirlo. Penso che per gli artisti l’Atelier F sia, allo stesso momento, un punto di riferimento ma anche uno stimolo alla concorrenza, al lavoro individuale. Ed è proprio da questo geniale paradosso che sono uscite intere generazioni di artisti importanti.
Thomas Braida: A mio avviso, l’Atelier F è un po’ come una scuola e un po’ come un movimento, con ovviamente tutti i possibili rischi. Sta avere esperienze anche fuori da quel contesto e poi riportarle dentro e rielaborarle insieme agli altri. C’è sempre stato uno scambio tra noi, nel cercare di imparare delle soluzioni da altri o, al contrario, nell’evitare di fare allo stesso modo.
N, C.: Direi forse che quello che caratterizza gli artisti che hanno frequentato l’Atelier F è la cura e la responsabilità verso le generazioni successive.
T. B.: Sì. È una dinamica continua, in cui si cerca di aiutare l’ultimo arrivato. E poi la trasmissione delle informazioni avviene a doppio verso.
D. C.: Cioè?
T. B.: Capita frequentemente che anche i più vecchi, con più esperienza, imparino da quelli più giovani. Che magari hanno modalità differenti, approcci cui non avevi pensato o anche idee del tutto nuove.
Nebojša Despotović: Per me l’Atelier è stato ed è come una famiglia, ma su base volontaria. Però, come capita con la famiglia vera, se ne sei parte lo sarai per sempre, indipendentemente dal fatto di avere un ruolo molto attivo o di essere una pecora nera. Ci sarà qualcosa che condividi con gli altri membri, e quello che condividiamo è arte, pittura, pensieri, desideri. E pezzi importanti della nostra vita.
D. C.: Thomas e Nebojša, siete attivi con Fondazione Malutta, con le mostre di Figolammerda, ma anche con le attività estive a Forte Marghera in cui seguite i fioi… [letteralmente “figli”, nel senso di “giovani”, in veneziano, N.d.R.].
T. B.: È una necessità naturale e abbiamo imparato così. Condividere con amici un’attività che è anche lavoro è alla fine più divertente e più stimolante. Siamo un gruppo, una famiglia allargata, con tanti ruoli diversi.
N. D.: Io penso che essere artista sia una professione e una missione collettiva, anche con una funzione pubblica. Anche quando sei da solo nel tuo studio stai facendo qualcosa a nome di altri. Per cui limitarti a partecipare alla società da solo non porta a niente. Se non condividi quello che sai e fai stai sprecando un’opportunità. E noi abbiamo un’occasione che si chiama “scuola veneziana”.
D. C.: La mostra Senza tema, per la quale vi ho chiesto di suggerire ciascuno un paio di artisti da invitare, è in qualche maniera un progetto collettivo. Mette al centro non tanto le opere, ma le relazioni e la fiducia nelle persone. Tu, Nemanja, hai scelto Jingee Dong e Paolo Pretolani.
N. C.: Dong è un pittore serio e attentissimo, molto aperto alle sfide metodologiche. Per me rappresenta l’intero nucleo cinese, che in qualche maniera ha sostituito l’importante presenza slava che si registrava all’Accademia anni fa. È un artista che con la stessa incredibile facilità si misura con la piccola dimensione di un quaderno o con formati importanti. Il compagno Pretolani, invece, è un poeta visivo che costruisce le sue opere seguendo principi personalissimi per dare forma a ogni suo singolo pensiero. Ho avuto l’opportunità di presentare la sua opera The Beast Friends in due mostre, e quel lavoro è una raffinatissima metafora delle condizioni disastrose di tantissime nostre società, devastate dalla crisi del capitalismo.
D. C.: Tu, Thomas, hai invece scelto di invitare Carolina Pozzi e Nicola Facchini. Per quali aspetti hai pensato proprio a loro? Li senti vicini, simili a te?
T. B.: Vedo in loro quel coraggio, che magari avevo anch’io, di fare qualcosa di diverso, di provare delle soluzioni nuove, magari anche al di sopra dei limiti che credi di avere. Quell’audacia, quel desiderio di superarsi mi ha fatto pensare che fosse giusto sostenerli. Carolina mi pare aggredisca la tela: fa dei salti che per un pittore sono anche difficili da capire. Rischia moltissimo. Con Nicola è diverso: abbiamo lavorato insieme in atelier, lui era all’inizio e io stavo quasi finendo. Me ne sono preso cura, se così possiamo dire, anche se va detto che lui non è che ne avesse bisogno! Comunque ci siamo influenzati reciprocamente. Penso che anche nella sua pittura ci sia carica, presenza.
D. C.: E tu, Nebo, perché hai scelto Francesco Cima e Margherita Mezzetti?
N. D.: Nella mia testa non era importante solamente individuare quelli che mi sembravano migliori, ma aiutare i resistenti, chi in qualche modo si oppone alla corrente. Ad esempio Francesco: ha uno strano approccio al mondo e alla pittura, le sue opere sono delle rappresentazioni bidimensionali della sua simbologia/mitologia personale, che deve avere un legame con l’infanzia, al momento in cui lui ha creato la sua dinamica di conoscere il mondo. Margherita Mezzetti è più razionale, indipendente, capace di svolgere una narrazione sintetizzando gli elementi, trasformando il soggetto in una sorta di bambola alla quale lei assegna un ruolo nel suo mondo immaginario. Anche se c’è nei suoi ritratti il mondo mediatico di Instagram, del cambio continuo di identità.
‒ Daniele Capra
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati