She persists: la mostra omaggio nella casa del Sindaco alle donne dell’arte di New York
Si svolge nella residenza ufficiale del Sindaco di New York la mostra omaggio alle donne dell’arte della Grande Mela. Le immagini
Il 4 giugno del 1919 il Congresso americano approva il XIX emendamento alla Costituzione, sancendo il diritto di voto per le donne. Un secolo dopo, la città di New York ricorda quello storico traguardo con una mostra dedicata alle donne dell’arte, She Persists: A Century of Women Artists in New York. Ospitata nelle stanze di Gracie Mansion, la residenza del sindaco di New York, la mostra raccoglie 60 opere di 44 artiste che ripercorrono 100 anni di storia dell’arte e di battaglie per i diritti delle donne. Il tutto con New York di sfondo.
UNA TRADIZIONE CHE RITORNA
La mostra nasce su iniziativa della first lady Chirlane McCray, moglie del sindaco de Blasio che, riprendendo una tradizione interrotta dal suo predecessore Michael Bloomberg, ha scelto di vivere con la famiglia a Gracie Mansion. La residenza dell’Upper East Side, costruita come casa di campagna dal mercante Archibald Gracie nel 1799, quando questa area dell’isola di Manhattan non era ancora parte della città, è una magione in legno su due piani, in stile federale. Fu l’urbanista Robert Moses a convincere l’allora sindaco Fiorello La Guardia ad eleggerla a propria residenza nel 1942. Grazie alla sua posizione affacciata sul fiume nella parte nord della città e lontana da altri edifici, la casa rappresentava infatti un luogo sicuro per il sindaco in tempi di guerra. Ristrutturata e ampliata nel corso degli anni, nel 2002 la casa è stata rinominata People’s House dal sindaco Bloomberg che aveva deciso di non viverci e che riteneva che l’edificio dovesse servire esclusivamente da museo. I de Blasio hanno invece scelto di riprendere la tradizione pre-Bloomberg ma allo stesso tempo hanno avviato, per iniziativa di Chirlane McCray, una serie di programmi pubblici dedicati alla storia di New York, nello sforzo di ampliare il significato di questo luogo come casa del popolo.
SHE PERSISTS: LA MOSTRA SULLE DONNE
She Persists si inserisce all’interno di questo sforzo, in un momento di rinnovata attenzione verso le donne nell’arte e nella politica, in congiunzione con il programma She Built NYC, creato dalla first lady con lo scopo di erigere monumenti in città, dedicati a importanti figure di donne che hanno contribuito alla storia di New York. Il titolo della mostra è ispirato allo slogan che aveva accompagnato le proteste femministe nel 2017, dopo che il leader di maggioranza al Senato, Mitch McConnell aveva interrotto la senatrice Elizabeth Warren durante un discorso di critica dell’allora candidato attorney general Jeff Sessions, spiegando poi che Warren “persisted” nonostante le fosse stato chiesto di chiudere il discorso.
Curata dalla storica dell’arte Jessica Bell Brown, la mostra è organizzata intorno a quattro temi centrali: la lotta contro la storia, il corpo come campo di battaglia, la rappresentazione dell’altro, l’espansione dell’astrazione. “Tutte le opere in mostra sono state create tra il 1919 e il 2019, ma questa organizzazione tematica”, ci ha spiegato la curatrice, “ci ha consentito una maggiore flessibilità, preferendo a una rigida interpretazione storica dell’arte un approccio più aperto e fluido. Abbiamo così potuto raggruppare le artiste in modi nuovi e inaspettati. Ad esempio, abbiamo accoppiato Helen Frankenthaler con artisti meno noti ma di pari importanza, come Betty Blayton-Taylor, che è stata una educatrice e cofondatrice dello Studio Museum di Harlem: entrambe hanno fatto la storia dell’astrazione. I visitatori troveranno anche giovani talenti emergenti come la pittrice figurativa Jordan Casteel e la ritrattista storica Alice Neel, artiste che, pur lavorando a distanza di diversi decenni l’una dall’altra, condividono un profondo impegno nel rappresentare i propri soggetti in modo empatico”.
DALLE GUERRILLA GIRLS AL METOO
Il significato politico della mostra appare chiaro fin dall’ingresso nella sala principale di Gracie Mansion dove, sulle pareti dipinte di un vivace azzurro che pare sia da attribuire a Bloomberg, sono esposte due opere del collettivo Guerrilla Girls che negli anni ‘80 criticava apertamente il sistema patriarcale del mondo dell’arte e la carenza di opere di artiste nei musei. Nella stessa stanza, all’interno di una teca, sono esposti testi di e su Shirley Anita Chisholm, la prima donna afroamericana a servire nel Congresso degli Stati Uniti, eletta nel 1968 in uno dei collegi di New York.
La mostra prosegue sviluppandosi tra le varie stanze della residenza, tra salotti, scaffali, camini, divani, credenze e tavoli da pranzo. Sulle pareti, un secolo di arte al femminile ripercorre la storia di New York e degli Stati Uniti: le fotografie di Berenice Abbott (1898-1991), Diane Arbus (1923-1971), Ruth Orkin (1921-1985), Consuelo Kanaga (1894-1978), Cindy Sherman (1954-) e Lorraine O’Grady (1934-) raccontano diversi momenti storici, catturando le questioni cruciali di ogni epoca, così come le stampe di Isabel Bishop (1902-1988) cristallizzano scene quotidiane di quella vita lavorativa attraverso cui passò l’emancipazione femminile. Meno documentaristico ma altrettanto esplicito, il video Semiotics of the Kitchen (1975) di Martha Rosler (1943-) che mette in scena una parodia dell’esasperante ripetitività delle attività domestiche cui viene relegata la donna.
FINO ALLA BLACK CULTURE
La città appare spesso, non solo nelle fotografie, ma attraverso tutta la mostra. C’è il George Washington Bridge in Tar Beach II (1990) di Faith Ringgold (1930-), uno dei quilt che l’artista e attivista afroamericana iniziò a realizzare a partire dagli anni ‘70, riprendendo una tradizione di famiglia. L’opera riproduce una scena ricorrente nell’infanzia dell’artista che, durante le calde notti d’estate, era solita salire sui tetti con la famiglia e i vicini di casa per trovare un poco di refrigerio. Scene di vita sociale in diverse zone della città nella prima metà del secolo appaiono nei quattro lavori di Florine Stettheimer (1871-1944) riprodotti per questa mostra (gli originali fanno parte della collezione del Met). Ricorda invece la scena queer del Greenwich Village il video Lost in the Music (2017) di Tourmaline (1983) e Sasha Wortzel (1983) che ritrae l’icona transgender Marsha Johnson. E anche dove la città non appare esplicitamente, come nell’opera Yesterday (1987) di Carmen Herrera (1915-), è la biografia dell’artista a raccontare un legame indissolubile con New York.
RIFLETTERE SU NEW YORK
“Tutte le artiste in mostra hanno avuto un’esperienza trasformativa o comunque significativa a New York City”, continua la Bell Brown. “Che si tratti di artiste di origini britanniche o francesi o di donne nate e cresciute in città, la nostra intenzione era di mettere insieme un gruppo di artiste che riflettesse la varietà di vite che caratterizza i newyorchesi di ogni estrazione sociale e background”.
All’uscita dalla residenza (o all’entrata, per chi fa attenzione), nel giardino antistante la casa, conclude il percorso una scultura di un’altra artista afroamericana affezionata ai temi dell’identità di genere e razziale, Kara Walker (1969), che qui espone Invasive Species (To Be Placed in Your Native Garden) (2017), un’opera che evoca il tema delle migrazioni, del dislocamento e della conseguente nascita di culture ibride.
Gracie Mansion non è un museo ed è forse proprio questo a rendere speciale e affascinante questa mostra. Una visita in questa residenza vale sempre la pena: le visite guidate offerte dalla Gracie Mansion Conservancy sono ricche di storia, aneddoti e informazioni. Fino a fine anno, She Persists offre un ottimo motivo in più per fare il viaggio fino all’Upper East Side e rendere omaggio a chi prima di essere artista è stata donna ed ha fatto della propria arte un modo per esprimere un messaggio con la forza di cambiare il mondo.
– Maurita Cardone
https://www1.nyc.gov/site/gracie/visit/she-persists-art-installation.page
https://www1.nyc.gov/assets/gracie/downloads/pdf/She-Persists-Brochure.pdf
https://www1.nyc.gov/site/gracie/visit/visit.page
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