Gli artisti e la ceramica. Intervista ad Alessandro Roma
Nuovo appuntamento con la serie dedicata agli artisti che hanno scelto la ceramica come loro materiale di riferimento. Stavolta la parola va ad Alessandro Roma.
Alessandro Roma (1977), dopo una serie di esperienze tra Londra, Berlino e Bruxelles, ora vive a Milano. Artista da sempre interessato alla pittura, nel 2011 inizia ad avvicinarsi alla scultura in occasione della mostra personale Humus al Mart di Trento. Da diversi anni lavora con la ceramica creando degli ambienti installativi in cui le sue composizioni tridimensionali dialogano in maniera sempre più stretta con la pittura.
Ci sono due caratteristiche peculiari del tuo fare ceramica. Da un lato sei un artista che la lavora in maniera piuttosto indipendente, dall’altro hai sempre operato in luoghi periferici quando hai deciso di collaborare con artigiani. Perché questa necessità?
Prima di tutto è una questione di spazio. Albisola, Montelupo, Faenza sono tutti centri in cui ho trovato uno spazio per lavorare svincolato da una dimensione di tempo, sono stati tutti progetti in cui sono stato libero si sperimentare senza troppi vincoli. In secondo luogo lavorare con degli artigiani significa incontrare persone che hanno una modalità di lavoro molto diversa da quella del mondo degli artisti. Mi accorgo che quando lavoro con loro sono molto libero: il mio interlocutore non ha nessuna reverenza, incontrandolo recupero il piacere della relazione, del conoscersi, dell’instaurare dei legami che possano entrare nel risultato finale dell’opera. Ovviamente per fare questo è necessario avere tempo: il tempo di conoscersi, di conoscere le tecniche, di procedere. Istintivamente sento una connessione con questi luoghi un po’ periferici, anche se con tradizioni importantissime.
Anche perché ad Albisola tu lavori con Mazzotti, un centro storicamente legato alle collaborazioni con i grandi artisti della storia dell’arte del Novecento.
Sì, anche se parlando con loro ho scoperto che gli artigiani che lavoravano con questi maestri erano certamente incuriositi dalle figure che lavoravano con loro, ma che l’elemento che più ha segnato la produzione è stato il sincero interesse e divertimento per l’incontro. Lavorare con l’artigiano per me significa questo: riscoprire l’incontro, affidarmi al possibile. Non significa, invece, avere una linea certa su tempi e modalità. Mi piace discutere tutto, anche la linea tecnica che per un artigiano è molto scontata, quasi obbligata.
Hai spesso dichiarato che la ceramica per te è un’estensione della pittura e che per te l’ostacolo più grande è decidere quando l’opera è finita, quando fermarti. Nella pittura in studio questa valutazione rimane solo tua, mentre nelle collaborazioni che metti in atto con la ceramica immagino che la scelta arrivi necessariamente anche a seguito di una discussione.
Nella ceramica, come nella pittura, se eccedi rischi di perdere completamente il senso iniziale. Ovviamente la ceramica contiene, rispetto alla pittura, l’elemento di sorpresa legato all’apertura del forno – quasi un topos nella letteratura dedicata alla materia direi. È però vero che guardando il lavoro ti accorgi di quando un’opera sia riuscita alla prima cottura o di quando abbia bisogno di rielaborazione. Credo che entrambe – pittura e ceramica – siano legate a una conoscenza del processo che procede autonomamente rispetto all’intelletto: io posso conoscere perfettamente tutte le tecniche, ma se non le metto in pratica non so realmente cosa accada. Direi che per me la strada procede al contrario: io metto in pratica per poi conoscere. E questo è anche il motivo per cui, affidandomi a persone competenti, io posso sempre lasciare all’artigiano un certo margine di intervento. Nel dialogo con lui sta ovviamente il grande scarto rispetto alla solitudine della pittura in studio.
Nella mostra che hai presentato a Bruxelles si ha una panoramica sulla tua produzione in ceramica dell’ultimo anno che ti ha visto “in tour” in moltissime città della ceramica italiana: Faenza, Albisola, Montelupo. Guardando i lavori riesci a fare un bilancio? A isolare come ogni singola esperienza abbia influito sul risultato? Le esperienze, dato che dalla pratica parti ogni volta, si sommano e influiscono sulla ricerca che svolgi nella città successiva oppure ogni volta l’esperienza si azzera?
Credo che, guardando i cinque lavori esposti a Bruxelles, non si possa percepire la loro provenienza, o il momento in cui sono stati realizzati. Hanno una loro coerenza piuttosto forte, anche se li ho realizzati seguendo percorsi di ricerca diversi: a Montelupo ho potuto fare una ricerca molto dettagliata sul colore, mentre a Faenza ho lavorato più sui formati. In tutti, però, ho tentato di portare all’eccesso degli aspetti di ricerca che mi ossessionavano da un po’ di tempo: la scomposizione della forma, la stratificazione del colore sulla superficie, il segno che interviene creando un dialogo tra interno ed esterno. Credo che le specificità singole di ogni produzione non siano tanto legate alla sede, quanto alla relazione che si è creata di volta in volta. Le sinergie, più o meno immediate, entrano nel lavoro. C’è un aspetto emotivo che ha un riflesso diretto nel lavoro. Mi piacerebbe forse provare ancora altre città… Dopo tutto le città della ceramica sono oltre la ventina, io ho lavorato in tre!
E a proposito di questo lavoro assiduo sulla materia, che da quello che capisco vorresti portare avanti ancora a lungo, ti chiederei: in che misura tutte queste esperienze plastiche hanno influenzato la superficie della tua pittura?
Credo che il processo sia inverso: la matericità già presente nella mia pittura a un certo punto ha chiesto di spostarsi, di uscire dalla tela e di diventare manipolabile, quindi ceramica. Quando sono arrivato alla ceramica mi sono accorto che però portavo con me un approccio bidimensionale e pittorico: mi intriga la superficie, quella pelle che si muove. Ero incuriosito dall’idea di trasformare il segno (che da sempre popolava la pittura) in forma. Adesso, per esempio, sto tentando di creare dei bassorilievi che sono per me un modo di dare consistenza materica al segno. Un incontro totale tra segno, forma e colore.
E questi “fregi” esistono autonomamente o vivono in maniera diretta a contatto con la pittura muraria?
Recentemente, prima al Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, poi alla Casa Museo Jorn di Albisola, la mia pittura ha sentito il bisogno di relazionarsi con l’ambiente e con nuove superfici. A Faenza i tessuti si relazionavano con le sculture, a Bruxelles vorrei che i bassorilievi sulla parete interagissero con un nuovo spazio. La parola che hai usato, fregio, è in realtà molto interessante, perché ho deciso di collocarli creando proprio un motivo che ricordi il fregio: o molto in alto o nello zoccolo della parete. Questo perché vorrei un continuo spostamento dello sguardo, vorrei che l’occhio sviluppasse un’attrazione fisica. E in questo la ceramica è uno strumento fondamentale perché non c’è niente da fare: chiunque vuole toccare la ceramica quando la vede. L’idea di fregio, quindi, mi serve per creare una sorta di flusso e per forzare lo sguardo a muoversi. Mi accorgo che c’è sempre più una relazione con lo spazio dove espongo i miei lavori: per me lo spazio espositivo è un ambiente (per usare un termine fontaniano). È come se avessi triplicato lo spazio del collage. Già il collage creava un’apertura tra una carta e l’altra, suggerendo uno spazio ulteriore. Ora quando io posiziono una ceramica all’interno di uno spazio sto aprendo a un nuovo immaginario, un luogo che continua ad aprirsi, anziché racchiudere il lavoro.
Ancora una volta, sentendoti parlare così serenamente del fregio, del riempimento della parete, non posso che pensare alla serenità con cui tratti la parola decorazione…
La decorazione è sempre stata per me una fonte di inizio di perdita di coscienza. Il mio è sempre stato un tentativo di seguire in maniera naturale ciò che mi attrae. Vorrei che il mio intelletto non intervenisse “castrando” questa idea vaga. Guardando gli artigiani con cui ho lavorato, devo dire che uno degli aspetti che mi affascina maggiormente è una loro consuetudine, una maniera istintiva di lavorare. È come se la loro conoscenza fosse inconsapevole e questo per me è estremamente affascinante, perché è tutto quello che ho cercato. Quando si parla di decorazione spesso si cita Matisse. In realtà io sento tutta la distanza epocale tra me e lui. Guardando la sua pittura, ma anche gli interventi a collage dell’età matura, si vede una naturalezza, un piacere consapevole. Ecco io non sono quasi mai consapevole e mi interessa proprio cosa accade quando non lo sono. Il tutto ovviamente salvaguardando il risultato finale che deve sempre avere una sua piacevolezza estetica. Per me salvaguardare il piacere, dalla parte realizzativa al risultato finale, è l’unica cosa che un artista possa fare in questo momento. Per me è una presa di posizione rispetto a ciò che accade intorno: la bellezza può essere un valore. E per me questa bellezza si incontra anche tramite un processo: il collage distrugge l’esistente per aprire a una nuova interpretazione, ma lo fa tramite il taglio, il conflitto. Bellezza non vuol dire fluidità, serenità. Non per me. Però è tutto quello che voglio difendere.
‒ Irene Biolchini
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