Gli artisti e la ceramica. Intervista a Gianluca Brando
La ceramica è materia prima per molti artisti contemporanei. Questa volta prende la parola Gianluca Brando.
Gianluca Brando (Maratea, 1990), dopo un periodo di quasi due anni a Taiwan, inizia una residenza in Viafarini a Milano, città che ha eletto a casa. Lo abbiamo incontrato per parlare dei suoi progetti e di come vede il futuro prossimo, con o senza ceramica.
Francesco Simeti e Salvatore Arancio hanno parlato del loro interesse verso la materia, spesso anche come una fuga dal digitale. Come è nato per te questo incontro?
Io sono nato e cresciuto in Basilicata, un luogo convenzionalmente lontano dai linguaggi del contemporaneo (e non solo da quelli), specie negli Anni Novanta. Ho sempre avuto un contatto con soluzioni che potevano essere veloci, avvicinandomi a quello che avevo attorno. Ci sono materiali come il gesso e l’argilla che puoi reperire facilmente un po’ ovunque e così è stato per me, che me ne sono servito in contesti diversi. La ceramica con l’utilizzo degli smalti, invece, è arrivata solo nell’ultimo anno. Rispetto a una mia certa ricerca, la ceramica spinge all’esplorazione di soluzioni nuove, permettendomi di gestire quella caratteristica propria dello smalto di attrarre lo sguardo. Mi ha fatto però piacere sentir dire, da chi ha osservato i miei lavori – in ceramica e non – dal vivo, che potevano sembrare altri materiali, come se appunto la materia si ponesse in secondo piano rispetto al carattere del lavoro o ne fosse solo una parte. Questa ambiguità, questa possibilità di far “dimenticare la materia” è un aspetto importante.
Dunque, rispetto agli artisti che nominavi, per quanto mi riguarda, non si è mai posto il problema di dover fuggire dal digitale per recuperare una manualità perduta.
Guardando i progetti che hai presentato a Viafarini queste due anime sono piuttosto evidenti: penso alla colonna in gesso ‒ quasi un rimando a Giacinto Cerone ‒ e alla pulizia di Imago. Da un lato il gesto, dall’altro la preziosità.
Nomini proprio Giacinto Cerone, lucano anche lui. Seppur diverse, queste due anime appartengono a un modo di procedere in aderenza e contatto al preesistente. Non c’è quasi mai nel mio lavoro un’azione diretta, ma sempre il calco sul quale poi continuo a lavorare.
Il rapporto con la materia, e di conseguenza il rapporto con lo spazio e il tempo, rendono più consapevoli delle variabili che possono svilupparsi all’interno di certi limiti, ma appunto si tratta di leggere modifiche rispetto alla partenza, rispetto all’originale. Trasformare è proprio questa possibilità di variazione, di diversificazione di una forma primitiva. Non si può quindi negare questo rapporto con l’origine. Quando due anni fa, durante un viaggio in Cina, scoprii quel “fungo” che i cinesi chiamano “Verme d’inverno, erba d’estate” fu per me così forte, evidente ed evocativo il riconoscimento della traccia di una trasformazione che desiderai sin da subito farne un lavoro. E così dopo un anno ho potuto realizzare Imago.
Sembra che nel tuo lavoro ci sia un’attenzione ricorrente per il calco, chiedendosi sempre cosa mantenere del negativo (nella consapevolezza di quel dettaglio che sempre si perde), mentre il modellato sembra scomparire. Come è arrivata questa decisione?
Ristabilendo un contatto col processo ti poni nella condizione di dare spazio e ascolto all’inatteso, a quanto di nuovo può accadere. Ma per rispondere alla tua domanda devo tornare indietro a dei ricordi che avevo quasi rimosso. L’idea della copia è qualcosa che mi porto radicalmente dentro. La capacità imitativa è un luogo sereno dell’infanzia e corrisponde a qualcosa di simile all’identificazione della realtà esterna riconoscendo, al tempo stesso, una attitudine interna. Il calco parla di un contatto fedele – nella capacità che esso ha di registrare l’incontro di due materie, o meglio di una materia che, sovrapponendosi a un altro corpo, ne genera a sua volta un altro. Nella mia ricerca sulla scultura è diventato sempre più necessario concentrarmi sul processo e quindi sul calco, che parla di ambivalenza, di opposizioni e coincidenze.
La tua è fedeltà che però rimane alla superficie, una verità – quella del calco ‒ che è legata alla sola epidermide. Di ogni oggetto mantieni la forma e la superficie, ma ne ribalti l’essenza. Un po’ come nel caso di queste tegole che non proteggono più, che sono a terra, che contengono acqua. L’oggetto-tegola viene risemantizzato dal tuo intervento.
La capacità di invertire è interna alla pratica del calco. Le tegole sono elementi ricorrenti in tutto il paesaggio. Sono forme comuni che delimitano e proteggono lo spazio in cui ci troviamo; si trovano sopra le nostre teste e si rivolgono verso l’alto, guardano il cielo. Quando piove l’acqua scivola su di esse e magari quella stessa acqua va a formare una pozzanghera sull’asfalto… Ci sono più modi di osservarle, che variano a seconda della posizione in cui ti trovi a guardare un tetto. Dal basso puoi notare quel tipico profilo ondeggiato o puoi vederlo ribaltato a terra nella sua ombra. Quando invece ti trovi su una terrazza alta, i tetti possono apparire come una superficie piatta. È una forma che sto ancora indagando, ma quello che vedi qui è proprio il risultato del capovolgimento. E questa inversione avviene su più livelli. L’acqua presente all’interno e lo smalto nero generano un riflesso, quindi un ulteriore ribaltamento dello spazio, della realtà circostante.
E a proposito di ritorni e lontananze dalla tua terra natale: mi dicevi Roma in Accademia, poi Venezia e anche Taiwan. Quanto sei stato lì? E come è stato fare arte lì?
Sono stato quasi due anni in Taiwan. Ho avuto uno studio lì e un’esperienza di vita molto diversa. La frenesia di una metropoli come Taipei obbliga a una vita allineata su altri valori. Sono società in cui i ruoli sono ancora ben distinti e si fa fatica a uscire da certe griglie preimpostate, anche se ci sono delle eccezioni. Ho conosciuto personaggi a dir poco unici che spesso fuggono dalla metropoli e si spostano sulla costa est, dove c’è una natura tropicale e si conduce una vita quasi rurale. In quei luoghi ti senti sempre un po’ separato dagli altri per il tuo essere un occidentale. Sei estraneo a una cultura millenaria che magari non si è conservata nei monumenti, nelle cose, ma è viva in certi atteggiamenti della gente e soprattutto nel linguaggio. Questa realtà da cui io mi sentivo all’inizio molto separato ha sicuramente influenzato il mio modo di lavorare. In un magazzino di New Taipei City devono ancora esserci dei miei lavori. Forme in gesso che trattenevano sulla superficie residui di creta. Sentivo la necessità di afferrare, quanto più possibile, i passaggi interni, gli scarti e i cambiamenti di stato da una forma all’altra, senza separazione.
Come mai è arrivata Milano e come vedi il tuo prossimo futuro?
Dopo una residenza a Torino presso Cripta 747, da settembre vivo a Milano dove ho anche uno studio e vorrei fermarmi per un po’. Milano ha un’energia sua, qui ho trovato una comunità che ho cercato per molto tempo. C’è un ritmo che forse devo ancora cogliere veramente, anche se poi io continuo a muovermi sempre in bici. Milano mi piace per il suo essere luogo di incontri e di ulteriori sviluppi del mio lavoro. Per ora la sento come una buona base, anche se sono sempre pronto a ripartire.
‒ Irene Biolchini
Gli artisti e la ceramica #1 ‒ Salvatore Arancio
Gli artisti e la ceramica #2 ‒ Alessandro Pessoli
Gli artisti e la ceramica #3 ‒ Francesco Simeti
Gli artisti e la ceramica #4 ‒ Ornaghi e Prestinari
Gli artisti e la ceramica #5 ‒ Marcella Vanzo
Gli artisti e la ceramica #6 – Lorenza Boisi
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