Non me la racconti giusta. Un progetto artistico nelle carceri italiane
Un focus sul progetto artistico condotto da Collettivo FX e NemO’s nella Casa Circondariale di Firenze, a Sollicciano. Dando voce ai detenuti.
Si è svolto quest’anno a Sollicciano, Casa Circondariale di Firenze, il progetto autofinanziato degli artisti urbani Collettivo FX e NemO’s. Iniziato nel 2016 nel carcere di Ariano Irpino e proseguito a Sant’Angelo dei Lombardi e a Rimini, Non me la racconti giusta si svolge in collaborazione con Maria Caro di ziguline e il supporto del fotografo e videomaker Antonio Sena.
Sollicciano, aperto nel 1983 nella periferia ovest di Firenze, replica architettonicamente il giglio, simbolo della città, occupando 2,5 ettari coperti dei 15 dell’intero complesso. Le distanze fra un settore e l’altro, gli uffici e i diversi spazi di servizio sono, a seconda dell’area da raggiungere, nell’ordine di chilometri. Un complesso poco funzionale secondo gli esperti, critico per le carenze strutturali e degli impianti, a cui di volta in volta si cerca di far fronte, sempre sovraffollato. Eppure, proprio le dimensioni di Sollicciano hanno permesso la creazione di due sezioni protette, una dedicata ai transessuali, l’altra a chi ha commesso reati di stampo sessuale, ed è qui che è approdato Non me la racconti giusta, viaggio nelle carceri italiane.
IL PROGETTO
Alla presentazione del progetto, tenutasi a Firenze il 22 febbraio, il direttore del carcere, Fabio Prestopino, ha sottolineato quanto sia stato importante coinvolgere un gruppo di detenuti ai quali è riservata una doppia esclusione: dalla società in quanto rei, dal resto della comunità carceraria per il tipo di reato commesso. “Questa è stata un’ulteriore occasione per discutere fra noi dell’amministrazione di quanto sia positivo aprirsi a forme d’arte contemporanea, capaci di veicolare con forza e immediatezza messaggi rilevanti”.
Emanuele, Gianluca, Franco, Bala, Luis, Kledian, Christian, Stefano, Renzo, Azfal, Issam questi messaggi li hanno affidati alle pareti dell’area comune della Sezione 13, uno stanzone spoglio dove si guarda la televisione. In questo spazio condiviso hanno raccontato della propria vita e dell’esperienza penitenziaria, scegliendo di rappresentare gli effetti della carcerazione e la burocrazia carceraria attraverso le metafore del telecomando e del timbro. Su ciascun tasto dei quattro telecomandi, rivolti verso la TV posta al centro del muro, la parola scritta identifica il sistema, gli stati d’animo, le privazioni, le carenze. Sulla parete opposta, un imponente mano-timbro indica/giudica un uomo bloccato su un’alta pila di documenti, pronta a contrassegnare con uno snervante ATTENDERE la “domandina” (così viene chiamato il modulo 393), indispensabile per comunicare con l’amministrazione e per richiedere qualsiasi cosa, dalla visita medica alla telefonata, dal colloquio con il proprio avvocato all’acquisto di una saponetta.
CARCERI E IMPEGNO SOCIALE
Ecco perché ‘pittare’ in carcere gratuitamente, autofinanziandosi, per una ragione di impegno sociale. Le carceri italiane spesso non dispongono delle risorse necessarie, cosa che incide negativamente sulla vita, oltre che dei detenuti, di tutto il personale penitenziario. L’obiettivo è riportare l’attenzione sul sistema carcerario italiano, spesso trascurato dall’opinione pubblica e gestito con fatica dalle istituzioni, per comprendere se e quanto esso sia un sistema chiuso, per riflettere sulla sua funzione, rieducativa o inutilmente punitiva. Con un’urgenza: focalizzare i temi di giustizia e di carcere, mostrando quello che accade all’interno delle mura attraverso un progetto culturale in cui i detenuti siano responsabili di tutto il processo creativo e del messaggio da veicolare, all’interno e all’esterno.
Le difficoltà incontrate non sono state poche, ammettono. La macchina burocratica è lenta e farraginosa: “Bisogna essere tenaci e preparati ad aspettare tanto tempo tra la richiesta e il rilascio di autorizzazioni e permessi. Inoltre, non è stato facile fare accettare questa forma di espressione artistica. Come artisti urbani” ‒ racconta NemO’s ‒ “siamo stati a volte oggetto di diffidenza da parte dell’amministrazione, ma siamo riusciti a smontare il pregiudizio che l’assimila all’azione vandalica attraverso i risultati ottenuti in relazione alla collaborazione con il personale, al grado di coinvolgimento dei detenuti, alla capacità di recuperare quelli fra loro che si sottraevano per poca fiducia in se stessi, rafforzando quell’autostima che li ha resi i più entusiasti del risultato finale”.
PAROLA A NEMO’S
A Sollicciano il contesto non semplice è stato gestito grazie alle esperienze maturate in ambiti svantaggiati e ‘a rischio’. “È una sfida con se stessi” ‒ afferma Maria ‒ “nostra e di tutti coloro che vengono a contatto con il progetto, utile per riconoscersi ‘portatori sani’ di stereotipi e pregiudizi sui quali bisogna interrogarsi. Vanno evitate le semplificazioni che rischiano di ridurre i detenuti alla sola categoria del reato per cui scontano la pena e ti impediscono di considerarli nella loro individualità”.
“Il nostro è un approccio neutrale”, – spiega NemO’s. “Non facciamo domande sul perché si trovino in carcere. La disponibilità all’ascolto, all’eventuale ansia di chi si pone in atteggiamento difensivo, l’incoraggiare al dialogo tutti i membri del gruppo, l’accogliere le loro richieste e rispondere alle domande, tutto ciò crea un clima sereno e collaborativo e si instaura un rapporto paritario senza gerarchie”. “In carcere” – continua NemO’s ‒ “non siamo artisti, siamo tecnici che mettono a disposizione i propri strumenti per il raggiungimento di un obiettivo: permettere a tutti di raccontarsi attraverso il disegno. Messo in chiaro questo aspetto, si attiva l’interesse, si rafforza lo spirito di gruppo, la condivisione, il senso di responsabilità, la consapevolezza, individuale e collettiva, nei confronti dei soggetti e dei contenuti da rappresentare”.
IL COLLETTIVO FX
La conclusione la lasciamo al Collettivo FX: “Quando si becca un tizio e si mette in galera si ha la convinzione che sia risolto il problema. In realtà è il momento in cui si dovrebbe prendere atto del problema e iniziare realmente ad affrontarlo. Questo è il ruolo di uno dei luoghi istituzionali più importanti, dove girano migliaia di anime e milioni di euro. Ogni tanto mi capita, con il progetto “Non me la racconti giusta”, di vedere il mondo da lì. Pensavo di andare fuori dal mondo e mi sono ritrovato al centro del mondo”.
È questa, in sintesi, la molla che ha portato quattro persone ad intraprendere un viaggio che non hanno affatto intenzione di interrompere.
‒ Raffaella Ganci
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