Sex, la performance rivelazione di Anne Imhof

Tensione, aggressività, controllo degli istinti e perdita del sé. Ribaltamento del ruolo tra performer e partecipanti. Tutto questo e molto altro nella performance di Anne Inhof curata da Catherine Wood alla Tate Modern dal 22 al 31 marzo scorsi. Presto all'Art Institute di Chicago (30 maggio-7 luglio) e poi in Italia: al Castello di Rivoli (2020).

Un equilibrio precario sempre in pericolo: urtare i corpi, spingersi, toccarsi; al contrario mantenere una distanza, freddare con lo sguardo, alimentare la tensione. In alcuni attimi gli attori si confondono con il pubblico, scompaiono nella folla. Qualcuno sta spingendo per ottenere una visuale migliore o il performer sta giocando a entrare e uscire, sgomitando, dalla scena?
Non semplicemente una performance, quella di Anne Imhof (Gießen, 1978) alla Tate Modern di Londra, bensì un’esperienza immersiva in cui non puoi respirare. Assentarsi per qualche minuto significherebbe rischiare di perdere qualche gesto cruciale o banale, a seconda dei punti di vista. Dalle sei e mezza alle dieci e mezza di sera, senza bere né mangiare lo spettatore segue come un nottambulo, annusa, i movimenti del branco. Ne indovina il tragitto, le prospettive e il terreno di gioco. È tutta una questione di visibilità, vedere ed essere visto, correre per essere in prima fila. Follower e influencer.
Un’esperienza sensoriale a tutto tondo: odori acuti colpiscono l’olfatto, fiori secchi bruciati e sudore dolciastro, candele da sette sataniche. La birra versata, una rivisitazione del dripping, disegna a terra traiettorie effimere, mentre graffiti rossi appaiono sulla passerella di vetro.
Un inno all’umanità in vetrina, a una generazione disagiata e apatica che cerca nuovi idoli da venerare e con cui identificarsi. Un campanaccio dorato richiama gli adepti verso la tana.
Alcuni gesti vengono reiterati in un rituale profano di echi dismessi o marcati, momenti di confusione sono alternati ad attimi di silenzio angosciante, in cui il dramma stalla sospeso.
Il titolo previsto era Death Wish, a sollevare la questione dell’annichilamento, del sacrificio della personalità a favore dell’omologazione.
Il sesso, che dà titolo all’intera operazione artistica, coincide qui con un desiderio castrato, ove masochismo e frustrazione hanno la meglio sul piacere della reciprocità e soddisfazione degli istinti.

ELIZA DOUGLAS

Dei materassi sudici e un inventario di oggetti prelevati dalla realtà si trovano abbandonati raso muro, readymade e props teatrali a cui i performer danno vita: pile, fruste, strumenti bondage, candele, carte, accendini, alcol etilico.
Il look della troupe ‒ magliette death metal, sneaker, anfibi, fuseaux aderenti sportivi ‒ e la pila di t-shirt di band musicali ammassata in un angolo sono parte del meccanismo di rivolta adolescenziale e insieme di tipizzazione, di costruzione di un identikit forte e standardizzato. L’attenzione per le dinamiche della moda deriva ad Anne Imhof dal rapporto con la compagna Eliza Douglas, musa-modella di Demna Gvasalia (direttore creativo del brand Balenciaga) e personaggio principale della performance.
Altro elemento portante è il costume, le nuove abitudini acquisite dalla massa. Le sigarette elettroniche sono strumento fluido, utilizzato dall’artista per sollevare questioni di critica sociale. Giovani senza punti cardinali o aspirazioni “soffiano via” e allo stesso tempo si alimentano, compiacendosi, della noia e della mancanza di determinazione, alla ricerca di sollievo e divertimenti fallaci.
Se nel corto Un chant damour di Jean Genet uno dei due prigionieri cerca di passare all’altro il fumo della sigaretta, attraverso il foro nella parete che li separa, in un atto di partecipazione emotiva, desiderio e bramosia sessuale, durante la performance due dei performer (uomo e donna) agli antipodi di una superficie metallica, terminante in un una sezione cilindrica, espirano il fumo della sigaretta elettronica spingendolo a vagare nella cavità, come a voler raggiungere il compagno all’altro capo della struttura.

Anne Imhof, Portrait. Photo © Nadine Fraczkowski, Courtesy Tate

Anne Imhof, Portrait. Photo © Nadine Fraczkowski, Courtesy Tate

UN MONDO SOMMERSO O RIEMERSO

Torna il performer e coreografo Mickey Mahar, già incontrato in Faust, progetto vincitore del Leone d’oro alla scorsa edizione della Biennale di Venezia. In questa performance, rispetto alla precedente e ad Angst, lo spazio riservato alla danza e al movimento cadenzato è amplificato per poter far risuonare con più incisività la presenza scenica degli attori, in una location così impegnativa da coprire per le distanze.
Una delle sfide per Anne Imhof è stata concepire Sex per uno spazio evidentemente più ampio del padiglione tedesco. Mentre nel primo caso era stato ideato un pavimento trasparente per permettere ai performer di gattonare sotto il livello degli spettatori, raddoppiando di conseguenza anche la superficie a disposizione, nelle tank della Tate ‒ le vecchie cisterne usate come deposito dell’olio ‒ si presentano delle dinamiche binarie. Due moli, il primo destinato al pubblico per osservare l’azione, il secondo molto più alto impiegato dai performer per sorvegliare l’audience.Dei trampolini sono disposti nella tank circolare e vengono deliberatamente trasformati in giacigli sui quale distendersi, riprendere fiato, sostare. Rappresentano piedistalli funzionali a ospitare sculture viventi, agognatamene spiate dagli occhi prensili o registrate dagli schermi degli smartphone. Da Gilbert & George alla recente sperimentazione di Antony Gormley One and Other per il 4th plinth londinese di Trafalgar Square, il corpo del performer diventa nucleo artistico. In Sex, come una materia malleabile animata da fili invisibili, parla attraverso azioni minimali e residue, sconvolgenti e acute.
Billy Bultheel, compositore e performer, lecca famelico il proprio avambraccio; con la faccia rivolta al muro e le spalle agli spettatori, agita una frusta con cui colpisce a ritmi regolari, quasi scanditi da un metronomo, la propria ombra.

UNA PERFORMANCE DI QUATTRO ORE

Uno spettacolo perturbante che lascia adito a congetture. Permane nell’aria un’aspettativa costante, l’attesa della prossima mossa significativa. La violenza cautelarmente condensata e controllata è un filo sottile che unisce il nonsense dell’azione. I performer percuotono le colonne ricoperte di gommapiuma, squarciandola scossa dopo scossa, si auto-schiaffeggiano, vorticano in piroette urtando e spostando energicamente il pubblico radunato intorno, così da rompere le linee, irrompere come il vertice del triangolo in un cerchio.
I leader e i seguaci si manifestano attraverso meccanismi di potere: chi detiene la forza e il maggior vigore, laconico ma esplosivo, chi esercita un particolare ascendente, un richiamo da sirena ammaliatrice grazie alla propria voce. Eliza Douglas, sopra una piattaforma rialzata, fa headbanging come in un concerto punk rock, scatenando un senso di allarme e vertigine.
Chiude quattro ore di performance l’entrata in scena di un anonimo performer con la testa coperta da un pesante casco integrale. Sotto, il petto nudo è gracile e nervoso, fieramente emaciato. Non semplicemente una maschera ma un monito di trasformazione-trasfigurazione. Un futuro distopico da scongiurare. Apatia e disumanizzazione, forze centrifughe che ci allontanano dalle radici profonde dell’esistenza. La possibilità di svegliarsi dal sonno in cui l’umanità è piombata, dall’indifferenza attiva e passiva per difendere ciò che rimane di prezioso. L’ambiente e la singolarità della persona.

Giorgia Basili

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Giorgia Basili

Giorgia Basili

Giorgia Basili (Roma, 1992) è laureata in Scienze dei Beni Culturali con una tesi sulla Satira della Pittura di Salvator Rosa, che si snoda su un triplice interesse: letterario, artistico e iconologico. Si è spe-cializzata in Storia dell'Arte alla Sapienza…

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