Pittura lingua viva. Parola a Vincenzo Ferrara
Viva, morta o X? 35esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Vincenzo Ferrara è nato a Formia nel 1981. Si diploma in pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna e prosegue lo studio delle arti visive all’Accademia Internazionale di Comics di Torino. Tra le sue mostre recenti: Katà Métron, Imbarcadero, Luino, 2018; Anteprima, Spazio Studio, Castel di Ieri, 2018.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
Quando penso a dove nasce tutto il primo ricordo è un disegno fatto in classe alle elementari, lo guardai davvero con stupore, pensai: “Mi è venuto benissimo…”. Ero meravigliato dalla sensazione che quei tratti a matita mi parlassero, che esprimessero davvero la storia che dovevo raccontare. Forse fu l’attimo in cui capii che poteva essere un linguaggio. Credo che, alla fine, quell’impulso lontano sia stato la diretta conseguenza.
Chi sono i maestri e gli artisti cui guardi?
Tutto inizia con le atmosfere di de Chirico, per me. Ho guardato, e guardo, molta pittura contemporanea.
Ci sono tecniche o formati che prediligi?
Tutte le tecniche che possono dare vita a un’immagine. Ci sono lavori, però, che hanno bisogno di un certo strumento, quello più adatto, altrimenti ti respingono; così come il supporto. Amo i piccoli formati perché amo gli acquari, i microcosmi.
Perché la scelta della figurazione?
Perché la cosiddetta realtà è decisamente più inquietante, dipende da che prospettiva la osservi ed esamini. Ma, come nella musica che ascolto, ci sono continue influenze e fusioni nel modo di fare pittura, il mixaggio crea una traccia nuova. E io sono in un periodo in cui mi piace mixare anche solo con piccoli suoni, per rimanere in tema musicale. Vediamo cosa accade.
Dici che “ragioni per immagini”. Cosa intendi?
Non è facile rispondere a questa domanda perché riguarda varie fasi del mio approccio al lavoro e non. Intendo un dialogo con esse dove mi abbandono a un flusso di coscienza. La mia elaborazione delle immagini inizia col digitale, smonto e rimonto cercando una storia visiva che fluisca.
Come scegli i tuoi soggetti?
È una questione “poetica”, col tempo diventa un richiamo da parte delle immagini stesse. È “come” vedi quei soggetti che fa la differenza. Un’immagine che un paio di anni fa non mi diceva nulla oggi potrebbe essere perfetta, perché filtrata dall’esperienza pittorica che, nel frattempo, è mutata, si è evoluta.
E come nascono i titoli delle tue opere?
Solo se improvvisamente mi attraversano.
Dipingi dal vero?
No.
Quale, se esiste, il rapporto tra la tua pittura e la fotografia?
Esiste come riferimento e per collegare storie. È un mero mezzo per arrivare alla pittura.
Il disegno invece ha un ruolo nella tua pratica?
Fino a qualche anno fa pensavo che avrei sempre e solo disegnato, perché con la grafite in mano riesci ad avere il controllo della situazione. Poi la pittura s’è fatta strada, ha cominciato a scavare e ne ho avvertito il bisogno. Ha iniziato lei a influenzare il mio modo di disegnare. Ma il disegno è la struttura, la condizione prima.
Cosa rappresenta il lavoro in studio per te?
Un’immersione completa e continua.
Nelle tue opere i volti sono spesso negati, si tratti di una mano che li copre o di una maglia o della cancellazione di occhi, bocca e naso…
Il volto è ciò che ci identifica e questi sono tempi in cui farsi riconoscere, affermare che esisti a ogni costo con l’immagine di sé, ha raggiunto livelli isterici. Voglio pensare che attraverso la negazione del volto ci sia, per converso, un’immersione nel didentro di chi vive questa privazione e, di rimando, in chi la osserva. È un dialogo e un esercizio psicologico: il fuori che torna dentro per ritornare fuori in chi guarda. Aggiungo che il modo in cui il volto viene negato non ha la medesima valenza: negarsi, essere negati, oppure la luce che cancella, pongono, a mio avviso, domande differenti. I vestiti che si ammassano sul capo e che soffocano, si trasformano, hanno delle trazioni in atto e cominciano a divenire un corpo informe, a essere quella pelle che è il primo contatto col mondo che ci circonda e che ci permette di leggerlo, filtrarlo, registrarlo. Ravviso una sospesa violenza e ci sto lavorando. Penso a un corpo politico.
Ne derivano immagini surreali e inaspettate. Nel tuo rendere stranianti scene del quotidiano generi sensazioni diverse ‒ ambiguità, disagio, paura, inquietudine, sospensione, solitudine, violenza, dicevi… Quali sono le tue paure?
Gli abusi di potere, con annesse violenze fisiche e psicologiche. I guasti della psiche umana, quei buchi neri e profondi dove ci si perde, mentre fuori tutto pare apparentemente “normale”. Chi “crede di pensare” di conoscersi a fondo senza alcun dubbio. La mancanza d’aria. Le insenature tra gli scogli che paiono risucchiarti in profondità.
E cosa è per te la solitudine?
È una condizione necessaria per il lavoro, lo studio e l’ascolto. C’è una frase che ho trovato con Angelo Mosca su un muro e che è esplicativa: “L’importanza di essere soli (anche insieme)”, aver bisogno della solitudine come momento generativo non deve coincidere col volersi isolare. Diffido in egual modo di chi non riesce a stare da solo e di chi vuole stare da solo a ogni costo, sono le due facce della stessa medaglia.
Prediligi dei tagli molto cinematografici, i tuoi soggetti sono spesso “inquadrati”, come esemplarmente dimostra la tua omonima opera Inquadro del 2018. Quanto il cinema influenza i tuoi immaginari e la tua pratica?
Molto. L’influenza di un certo tipo di cinema non si esaurisce con la semplice visione, ma apre nuove ricerche. Credo che il mio modo di vedere e sentire le immagini sia stato fortemente influenzato dalle sensazioni espresse da autori come Cronenberg, regista del corpo crudo, le mutazioni di Akira e Tetsuo, Lynch e le sue metarealtà e soprattutto Haneke, in questo momento. Poi c’è il ragionare sulle immagini: quando la lampadina si accende, “catturo” e mi fermo a guardare analiticamente una serie di frame, la loro armonia compositiva, l’inquadratura, appunto. Sono quadri fatti e finiti.
E quali le altre tue fonti di ispirazione? Letterarie, musicali… so che sei un cultore della musica elettronica.
La musica elettronica nel suo universo di generi e sottogeneri ha un potere evocativo enorme, la mancanza quasi totale di parole ti costringe a un continuo richiamo di immagini riflesse dalle atmosfere più felici a quelle più buie e cerebrali. Non ho un buon rapporto con la parola scritta, per una serie di motivi, ma posso comunque dire Kafka e Poe; mi piace ascoltare quindi audiolibri e ho un interesse per la psicologia.
Ti sei diplomato in pittura e hai poi frequentato l’Accademia di Comics. Come dialogano nella tua ricerca questi due campi di formazione?
Il fumetto ti impone una sintesi sia nella forma che nel contenuto, un dialogo diretto col fruitore che ne deve essere immediatamente coinvolto. Nella pittura questo c’è ma è come se fosse stratificato, reso profondo nella sua immediatezza.
Raccontaci della tua recente personale curata da Angelo Mosca a Castel di Ieri in Abruzzo.
È stata un’avventura inaspettata. Quando Angelo mi ha proposto questa mostra gli ho detto “ok” immediatamente. Da quel momento tutto si è accelerato e ho cominciato a lavorare senza fermarmi un attimo fino all’ultimo giorno prima della partenza; poi il viaggio, l’ospitalità, le parole fino a tarda notte e infine l’inaugurazione. L’intento di Angelo è nobile, ed esserne coinvolto, portare i miei lavori in quei territori splendidi, è stata pura energia; d’altronde, quando vuoi far vivere o ri-vivere qualcosa, alla base non può che esserci una forte motivazione e l’arte è anche questo, una spinta continua e inspiegabile che incrocia e mette in moto altre storie. Quella mostra è stata un’anteprima anche per me, nel senso che mi ha regalato degli spunti inaspettati che sto mettendo in atto oggi.
Come definiresti la tua pittura?
Fino a poco più di un anno fa “compatta”, oggi compatta con delle crepe.
Perché fare pittura oggi?
Perché “i poeti sono i più arrischianti”, scrive Heidegger, quindi per gli stessi motivi di ieri e di domani.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Ho la sensazione di un fremito.
‒ Damiano Gullì
Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
Pittura lingua viva#9 ‒ Angelo Sarleti
Pittura lingua viva#10 ‒ Andrea Kvas
Pittura lingua viva#11 ‒ Giuliana Rosso
Pittura lingua viva#12 ‒ Marta Mancini
Pittura lingua viva #13 ‒ Francesco Lauretta
Pittura lingua viva #14 ‒ Gianluca Di Pasquale
Pittura lingua viva #15 ‒ Beatrice Meoni
Pittura lingua viva #16 ‒ Marta Sforni
Pittura lingua viva #17 ‒ Romina Bassu
Pittura lingua viva #18 ‒ Giulio Frigo
Pittura lingua viva #19 ‒ Vera Portatadino
Pittura lingua viva #20 ‒ Guglielmo Castelli
Pittura lingua viva #21 ‒ Riccardo Baruzzi
Pittura lingua viva #22 ‒ Gianni Politi
Pittura lingua viva #23 ‒ Sofia Silva
Pittura lingua viva #24 ‒ Thomas Berra
Pittura lingua viva #25 ‒ Giulio Saverio Rossi
Pittura lingua viva #26 ‒ Alessandro Scarabello
Pittura lingua viva #27 ‒ Marco Bongiorni
Pittura lingua viva #28 ‒ Pesce Kethe
Pittura lingua viva #29 ‒ Manuele Cerutti
Pittura lingua viva #30 ‒ Jacopo Casadei
Pittura lingua viva #31 ‒ Gianluca Capozzi
Pittura lingua viva #32 ‒ Alessandra Mancini
Pittura lingua viva #33 ‒ Rudy Cremonini
Pittura lingua viva #34 ‒ Nazzarena Poli Maramotti
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