Biennale d’Arte di Venezia 2019. I Padiglioni nazionali flop secondo Artribune
Dopo avervi parlato dei Padiglioni che ci sono piaciuti di più, ecco un elenco delle partecipazioni nazionali che per un motivo o per un altro ci hanno convinto di meno o affatto. Voi cosa ne pensate?
Dopo i Padiglioni top, ecco che arriva anche la più spinosa riflessione su quelli che invece ci hanno convinto poco o da cui ci aspettavamo di più. La 58. Biennale d’Arte di Venezia, all’insegna del tema della mostra internazionale curata da Ralph Rugoff May You Live in Interesting Times, ha anche riservato momenti poco interessanti o inaspettatamente poco interessanti. Finlandia, Canada, Germania e Stati Uniti sono quelli che, per diversi motivi, ci hanno lasciato piuttosto perplessi. Ecco perché.
FINLANDIA – MIRACLE WORKERS COLLECTIVE
Avevamo molte aspettative su questo Padiglione: la Finlandia infatti è stato il primo Paese a lanciare la call rivolta ad artisti e curatori per partecipare alla Biennale 2019 (addirittura due anni fa!) e anche il primo paese ad annunciare artisti e tema del progetto da presentare in Laguna. Il Miracle Workers Collective –crew formata da artisti, cineasti, scrittori, intellettuali, artisti e attivisti, esplora il miracolo come un veicolo poetico da cui espandere le percezioni e le esperienze, con una mostra dal titolo A Greater Miracle of Perception. Il Padiglione si sviluppa così attraverso una serie di video e un’installazione scultorea site specific di Outi Pieski che presentano la transnazionalità del popolo Sámi attraverso Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. Il “grande miracolo della percezione” però non è avvenuto, almeno per noi: l’installazione non rende giustizia al Padiglione progettato da Alvar Aalto, e nell’insieme le diverse parti che compongono la mostra non sembrano comunicare tra loro.
CANADA – ISUMA
Anche quello del Canada era tra i Padiglioni più attesi con gli Isuma, collettivo guidato da Zacharias Kunuk e Norman Cohn, artisti di origine inuit impegnati nel racconto e nella trasmissione della cultura della loro comunità attraverso i linguaggi della videoarte. Una partecipazione prestigiosa, la prima che il Padiglione Canada dedica all’arte del popolo Inuit. Il collettivo guidato da Zacharias Kunuk e Norman Cohn infatti è impegnato nel racconto e nella trasmissione della cultura della loro comunità attraverso i linguaggi della videoarte. Nel 1990, il collettivo fonda la Igloolik Isuma Productions Inc. per produrre videoarte indipendente dal punto di vista degli Inuit. Nel corso dei dieci anni successivi, gli Isuma hanno contribuito alla creazione di NITV, un centro di arti multimediali Inuit, e di Artcirq, un gruppo di giovani circensi. E da qui forse nasce il problema del Padiglione: si tratta di interventi video che probabilmente troverebbero maggiore respiro in una manifestazione dedicata ai documentari, rispetto a una biennale d’arte contemporanea.
GERMANIA – NATASCHA SUDER
Squadra che vince non si cambia. Devono aver pensato una cosa del genere dalle parti del Padiglione Germania, e così hanno tentato di replicare, almeno nel mood, l’exploit del 2017 di Anne Imhof, per l’appunto vincitrice del Leone alla scorsa edizione della Biennale. Peccato che Arkensentrum (surviving in the ruinous ruin)di Natascha Süder Happelmannnon ci si avvicini nemmeno. E così il padiglione è un’ode Anni Novanta al délabréberlinese povero ma sexy, dove la mostra di fatto non c’è. C’è un’installazione sonora, datata a livello di allestimento e interessante nei contenuti musicali (che però non sono dell’artista); c’è un video, ma che sta online; c’è un libro, ma è un libro.
USA – MARTIN PURYEAR
Ogni padiglione nazionale ha le sue regole e le sue procedure per stabilire chi organizza la mostra e naturalmente chi è/sono gli artisti invitati. Nel caso degli Stati Uniti, il sistema è complicato e prevede un turn over fra musei e istituzioni di volta in volta stanziate in parti diverse dal Paese. Quest’anno, in maniera piuttosto atipica, è toccato alla Madison Square Park Conservancy, che ha puntato su Martin Puryear. E, senza giri di parole, ha perso. Magari anche per il confronto con i padiglioni precedenti, da Mark Bradford a Joan Jonas; magari perché artista e non profit lavorano assai meglio in chiave di public art. Sta di fatto che la serie sculture che punteggiano le sale dello US Pavilion sono totalmente anonime, e per un Paese come quello equivale a un flop.
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